Vi propongo di attraversare secoli di Storia nel circoscritto spazio di una manciata di righe che, a breve, seguiranno.
Sarà viaggio a ritroso nel Tempo, attraverso i meandri di un Medioevo e di un Rinascimento lontani ma che ci appartengono, come vestiti dismessi nell’armadio, polverosi e logori, tuttavia, una volta, indossati.
Vi condurrò attraverso una peculiare prospettiva d’indagine, ossia l’analisi della condizione femminile, in merito alla quale molto si è scritto e discusso, affinché fossimo consapevoli che determinati abiti e soggoli non fanno solo mostra di sé in bauli serrati, ma sono stati alla luce del sole, nella tenebra della negata libertà.
“La natura ha dato alle donne un tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco”. Samuel Johnson
Alla donna del Medioevo e del Rinascimento, incatenata nei ruoli prefissati di madre, figlia o vedova, vergine o prostituta, santa o strega, era negata ogni possibilità di scelta di vita personale.Ciascuna, pertanto, doveva conformarsi a tradizionali modelli: ossia a Maria, per la vergine e monaca; a Eva, per la moglie e madre che doveva assicurare la progenie; e all’amazzone, per l’anziana fidata e silenziosa.Tutte coloro che non rientravano in queste categorie sociali erano ritenute sospette.La donna, reietta, lato “sinistro” della creazione, era, dunque, ai margini di una società maschile che deteneva un potere assoluto.Gli ambienti clericali formularono il paradosso che la donna è debole, ma regge il mondo: infatti Dio, affinché l’uomo non scivoli nella superbia, si serve di essa, priva di virtù congenite, per compiere grandi imprese.Ma, se falliva, l’erede della progenitrice era colpevole verso Dio, poiché ne aveva ostacolato la gloria.
“Si può notare che c’è come un difetto nella formazione della prima donna, perché essa è stata fatta con una costola curva, […] come se fosse contraria all’uomo. […] Fu Eva a sedurre Adamo, e siccome il peccato di Eva non ci avrebbe portato alla morte dell’anima e del corpo se non fosse seguita la colpa di Adamo, cui questi fu indotto da Eva e non dal diavolo, perciò la donna è più amara della morte […] perché la morte è naturale e uccide solo il corpo, ma il peccato, che è cominciato con la donna, uccide l’anima […] e perché la morte corporea è un nemico manifesto e terribile, mentre la donna è un nemico blando e occulto. […] E sia benedetto l’Altissimo che […] ha voluto nascere e soffrire per noi in questo sesso (maschile) e perciò lo ha privilegiato”H. Insistor, J. Sprenger, Il martello delle streghe.
Sulla base di questi assunti, si affermò il dovere di “custodia” che gli uomini dovevano esercitare sulle donne, in quanto esse non sono capaci di autodominarsi, ma sono possedute dai propri organi, in particolare dall’utero.
Sulla base di questi assunti, si affermò il dovere di “custodia” che gli uomini dovevano esercitare sulle donne, in quanto esse non sono capaci di autodominarsi, ma sono possedute dai propri organi, in particolare dall’utero.
Questo pregiudizio misogino ha un’illustre fonte, si tratta, infatti, di una reminiscenza del Timeo di Platone, nel quale si afferma che: “nelle femmine, ciò che si chiama matrice o utero è, in esse, come un essere vivente posseduto dal desiderio di fare figli”. Se non protetta dalla tutela maschile, sia amorevole che autoritaria, la donna rischia, quindi, di perdere la purezza, il valore supremo di cui può fregiarsi il sesso femminile.
Quindi il marito condannava la propria compagna a una vita appartata: nelle case signorili le veniva addirittura riservato uno spazio, detto “camera delle signore”, in cui l’uomo aveva libero accesso, che si configurava sia come luogo di seduzione, sia come gineceo e, talora, addirittura come una “prigione” dove essa viveva, segregata, in compagnia delle sue sorelle, delle nutrici e dei figli ancora in tenera età.L’unica alternativa a questa opprimente forma di custodia, che inevitabilmente degenerava nella sottomissione, era il monachesimo: solo nel deserto e nei monasteri era possibile per le donne, liberate dell’obbligo patriarcale di partorire figli, vivere con margini di autonomia.
“La donna è di vetro, e quindi non si deve far la prova se si possa rompere o no, perché tutto può essere. Ma è più facile che si rompa, e quindi sarebbe una pazzia esporre al rischio di rompersi ciò che, dopo, non si può più accomodare”.Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia.
Nel corso del XII secolo, alle costruzioni ideologiche promosse dagli ambienti ecclesiastici subentrarono quelle ideate dall’aristocrazia cavalleresca. I guerrieri del Medioevo, supponendo che le donne avessero un rapporto privilegiato con le potenze invisibili, sia maligne che benigne, attribuivano ad esse la preziosissima facoltà di intercedere in loro favore presso il Giudice più temibile, Dio.
La relazione fra i due sessi, subendo l’influenza del modello offerto dal codice di vassallaggio feudale, si sublimò nelle forme poetiche dell’amor cortese. Venne, così, a imporsi, in alternativa all’esaltazione della castità e dell’ascesi, una concezione positiva dell’amore, in cui il desiderio e la passione erotica non erano più oggetto di disprezzo e condanna. La donna, nella poesia lirica italiana del XII e del XIII secolo, dalla Scuola Siciliana al Dolce Stil Novo, diventò l’incarnazione, in forme leggiadre, di un essere superiore dotato di pieni poteri sull’amante.
La finalità di quest’amore non era, dunque, la soddisfazione di un appetito istintivo, ma il continuo spasmo dell’uomo, vincolato alla contingenza, verso un bene irraggiungibile:l’assoluto. Infatti, i versi dei poeti, ben lontani dal descrivere fisionomie femminili corporee definite, elaboravano figure simboliche astratte, aeree e pallide. Questi sfocati ritratti di “madonne” ispiratrici, condannate al silenzio e all’anonimato, testimoniano quanto il ruolo della donna nella società era, allora, subalterno e privo di autonomia esistenziale.
“Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
[…]Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la crede;
e no ‘lle po’ apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om po’ mal pensar fin che la vede”.
Guido Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare.
Nella poesia comica vennero “rovesciati”, nella dimensione deformante della parodia, i motivi e linguaggi topici del mondo cortese. Ottenne attenzione, infatti, l’aspetto, più realistico e carnale, ma al contempo più meschino, dell’esperienza amorosa. Il vituperium, sostituendosi all’encomio, descriveva la donna come avida, lussuriosa, traditrice, ingannatrice e maliziosa.
Nella produzione letteraria di Giovanni Boccaccio si rappresenta chiaramente la tensione bipolare nei confronti dell’universo femminile. Il Decameron, infatti, fu dedicato alle “vaghe donne” che nascondono le loro passioni amorose e “oltre a ciò ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano”. Nel Proemio l’autore si propose di rimediare, con il diletto generato dalle novelle, al “peccato di fortuna”, cioè alla condizione di inferiorità della donna nella società del tempo, che egli considerava il risultato di una mera circostanza sociale sfavorevole, non di un limite proprio del gentil sesso. Ma nel Corbaccio, operetta satirica in cui veniva riesumato il topos della insaziabilità femminile, Boccaccio fu in preda ad un incontrollabile accanimento misogino sugli aspetti disgustosi del corpo della donna e sugli artifici con cui ella, ingannevolmente, li cela. Il titolo forse alludeva alla figura gracchiante del corvo, simbolo, nei Bestiari, sia di maldicenza e aggressività, ma anche, poiché strappa alle carogne gli occhi e il cervello, della passione sensuale che accieca e priva di senno l’uomo. Nelle lunghe pagine di enfasi retorica contro i vizi di tutte le donne, Boccaccio si riallacciava alla precedente tradizione misogina, da Giovenale ai Padri della Chiesa, fino ai moralisti del Medioevo e ai clerici vagantes.
“La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionare: il che se gli uomini guardassero come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportunità vadano; i luoghi delle quali, posto giù il superfluo peso, come con istudioso passo fuggono, così il loro fuggirebbono, quello avendo fatto che per la deficiente umana prole si ristora; sì come ancora tutti gli altri animali, in ciò molto più che gli uomini savi, fanno. Niuno altro animale è meno netto di lei: non il porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di loro”. Giovanni Boccaccio, Corbaccio.
Appare una singolare coincidenza che nello stesso anno di pubblicazione del Malleus maleficarum si avesse l’edizione fiorentina di tale opera satirica.
Nonostante l’autonomia di giudizio rispetto alle auctoritas, anche gli umanisti ebbero, di solito, scarsa stima della donna. La pedagogia rinascimentale, rifacendosi a una fitta schiera di esempi classici e biblici, intendeva dimostrare la congenita “devianza” femminile, ossia la tendenza a distogliere l’uomo dal suo compito: se Ulisse resistette a Calipso, Enea a Didone e Giuseppe alla moglie di Putifarre, al contrario Sansone fu vinto da Dalila, Davide da Betsabea nuda e Ercole da Onfale, perfino Aristotele si lasciò cavalcare dalla cortigiana Fillide e Virgilio sospendere in un paniere da Febilla. La perversione della donna era raffigurata anche nei tormenti che Giobbe, Tobia, Socrate e Dante ebbero dalle loro mogli. Il De dignitate hominis, scritto nel 1486 da Giovanni Pico della Mirandola, era, nella sua esaltazione dell’intelletto, davvero pionieristico, ma invitava i soli maschi a godere della libertà: Dio aveva rivolto solo ad Adamo le parole in base alle quali l’uomo è artefice del proprio destino.
Il Rinascimento, quindi, riservava alle donne il suo lato più ombroso, contraddittorio, dionisiaco e saturnino. “Did women have a Reinassance?”, “c’è stato un Rinascimento per le donne?”, si è chiesta Joan Kelly. A questa domanda, posta in chiave schiettamente polemica, viene risposto, quasi sempre, in modo totalmente negativo. Esse, tuttavia, hanno saputo ugualmente ritagliarsi spazi di espressione nella letteratura, nella vita religiosa e negli atti processuali dei tribunali. La voce delle donne, infatti, si levò in difesa della natura femminile affiancandosi a quella, certo ben più corposa, degli uomini, nella querelle du sexes.
Una scrittrice, in particolare, osò emergere con coraggio dalla schiera inerte delle tacite figure, per ribellarsi ai pregiudizi maschili: Christine de Pizan. Per anni discusse pubblicamente con i più insigni rappresentanti della cultura francese contro lo stereotipo femminile creato dal Roman de la rose, nel quale trovavano felice accoglimento numerosi motti misogini.
In polemica con il De mulieribus claris di Boccaccio, l’erudita francese diede vita al suo capolavoro: Le livre de la citè des dames. Tale opera mette in scena un dialogo nel quale l’autrice e, sotto le spoglie di dame incoronate, Ragione, Rettitudine e Giustizia, elaborano il progetto di una città fortificata destinata alle donne degne di stima, purtroppo emarginate dalla società. Si offriva, tramite il ricorso all’utopia, un messaggio di speranza secondo il quale sarebbe mutato, un giorno, il destino della donna. Secondo Christine non esistono differenze di valore fra maschi e femmine, né nell’anima né nel corpo. Le donne, infatti, hanno pari facoltà intellettive, ma poiché godono di minori possibilità di erudizione e esperienza, divengono vittime, anziché dominatrici, del proprio destino.
Nelle corti del Cinquecento la donna non fu più costretta a uniformarsi ai modelli di Eva, Maria e dell’amazzone, ma, rivestendo per la prima volta un ruolo pubblico, divenne anche “donna di palazzo”. Tuttavia, la nuova figura di gentildonna era, in realtà, ancora il frutto, purtroppo marcio, dell’immaginario maschile. La dama doveva avere le medesime caratteristiche del cortigiano, enumerate da Baldassare Castiglione, sintetizzabili nella “grazia” delle maniere, delle parole, dei gesti, del portamento: alla donna, in aggiunta, si addiceva unì tenerezza molle e delicata e una soave mansuetudine.
Nel XVI secolo si compì anche il processo di formalizzazione giuridica dell’istituto familiare, all’interno del quale la donna trovava una collocazione precisa. L’ideale femminile si cristallizzò e si approdò, così, alla drastica alla distinzione delle donne in due categorie: le oneste, che vivevano nella famiglia o nel chiostro, e le cortigiane, che esercitavano la prostituzione, riunendo in sé il piacere e la rispettabilità. E tale bipolarità manichea, evolutasi in forme diverse nel fluire dei secoli, non è stata facile da sdradicare.
“Con l’immaginazione si può sempre adorare una donna, non è altrettanto facile amarla”. Alphonse Karr, Venerdì sera.
Emma Fenu
da http://www.memecult.it/venerata-vituperata-la-donna-fra-medioevo-e-rinascimento/?fbclid=IwAR378uUMucAZtNlgM3m6WUmgEVGC2bVM5GMU2k9vFrIPg9MW3QqWTHCfy1U
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