venerdì, aprile 26, 2019

Ajello, la cultura di destra la pagliuzza e il trave. da Luigi De Marchi 2009

Questo è un invito a una lettura attenta e a una riflessione senza pregiudizi. 

Il pezzo, come si vede , è datato al settembre di 10 ani fa, ma la situazione, per così dire, "culturale" lungi dalla capacità di una serena e consapevole autocritica in questo lasso di tempo si è solo sclerotizzata drammaticamente e costituisce purtroppo la base dell'informazione politica nazionale e del relativo dibattito, o meglio disputa. La prova è nelle litanie di luoghi ormai comuni fascismo/antifascismo che ci è toccato sorbirci avanti, durante e dopo il XXV Aprile e relative celebrazioni della Festa della Liberazione. 
I Poeta scrisse:
"libertà vo cercando, ch'è si cara
come sa chi per lei vita rifiuta"
ma io voglio vivere e voglio farlo libera, anche dalle sceneggiate.
AMg

venerdì 4 settembre 2009


Ajello, la cultura di destra
la pagliuzza e il trave


Leggendo su “Repubblica”dell’11 luglio (2006) un lungo articolo di Nello Ajello sulla cultura (o incultura) di destra mi sono subito balzati in mente due motti famosi: “Se Cartagine piange, Roma non ride” e “Vedono la pagliuzza nell’occhio altrui ma non vedono il trave nel proprio occhio”.
Ajello si prodiga per due intere pagine a dimostrare l’inconsistenza, per non dire l’inesistenza, d’una cultura di destra ed arriva a una conclusione severa e inesorabile sintetizzata nel titolo della sua articolessa: “Il partito senza idee”. E tutto sommato non posso non concordare con lui. La destra non ha idee e sa soltanto baloccarsi con i residui riciclati della tradizione: un po’ di tiepido nazionalismo, un po’ di sbiadito cattolicesimo, un po’ di astiose nostalgie fasciste. Ma la filippica e il titolo di Ajello poggiano su un assunto gabbato per solido e che, invece, è non solo fragile ma addirittura comico: e cioè che la sinistra abbia oggi una cultura. Naturalmente qui bisogna intendersi sul termine “cultura”.
Certo la sinistra ha oggi quadrate legioni di celebrati intellettuali, gragnuole di manifestazioni, celebrazioni e premiazioni culturali, piramidi di cattedre universitarie (anche perché è stata sempre abilissima nel corteggiare e piazzare bene i personaggi che un tempo erano definiti utili idioti e che si sono invece rivelati inutili furbetti). Ma se per cultura s’intende, come lo stesso Ajello sembra intendere col suo titolo, un fermento intenso di ricerche innovative, di creatività, insomma di idee, allora davvero la sinistra sta anche peggio della destra, per il semplice motivo che, in quanto sinistra, essa avrebbe il dovere d’incarnare il cambiamento e l’innovazione. E viceversa, in quella gragnola di manifestazioni, in quelle legioni d’intellettuali, in quella catasta di cattedratici non si riesce a vedere una sola idea nuova, magari solitaria e smarrita come la molecola di sodio della pubblicità d’una famosa acqua minerale.
Perfino la battuta famosa rivolta dal protagonista d’un film di Moretti al leader comunista “Di’ qualcosa di sinistra !” rivela inconsapevolmente lo smarrimento dell’accusatore, che non sa lontanamente precisare che in che consista quel “qualcosa di sinistra”. E difatti quando, qualche anno dopo, lo stesso Moretti scese in campo accusando d’incapacità i leaders del partito e candidandosi al ruolo d’ispiratore del rinnovamento, che cosa ha saputo produrre ? I girotondi e i girotondini che, dopo un po’ di chiassate, come è tipico di quel gioco, sono finiti “tutti giù per terra”.
Esattamente come la destra, la cultura della cosiddetta sinistra si balocca con i residui della sua tradizione: riciclando un po’ di invettive rivoluzionarie, o riscoprendo l’ombrello della socialdemocrazia, o celebrando senza convinzione i mummificati e impolverati idoli del suo passato (da Foucault a Brecht a Sartre), oppure mobilitando i suoi pompatissimi intellettuali odierni che si riveriscono e si premiano tra loro o infine ripetendo nelle università i rituali insulsi della didattica nozionistica e dell’indottrinamento degli allievi, che da sempre caratterizzano la tradizione accademica conservatrice.
E del resto tutto ciò è non solo comprensibile, ma inevitabile, perché la cultura di sinistra è composta da sacerdoti officianti ma non più credenti, da zeloti d’un Dio che non solo è fallito, come diceva Silone, ma è morto. Come scrisse Alberoni negli anni in cui si profilava il crollo del comunismo: “I marxisti europei non devono oggi abbandonare un punto di vista o un’ipotesi stimolante, devono abbandonare una fede, una sponda sicura, una casa, una fratellanza che travalica i paesi. Io non credo che questa separazione sarà indolore perché molti di loro avranno soprattutto un bisogno di fede che il relativismo scettico di tanta cultura contemporanea è destinato a frustrare. In questo momento di svolta della cultura comunista in Italia sono perciò portato a domandarmi dove condurrà la perdita di un’ideologia sicura e ritenuta inviolabile…Una delle ipotesi più probabili è che molti credenti della sinistra finiranno nei movimenti religiosi”.
Questa ipotesi di Alberoni ha trovato molte conferme, anche se molti altri credenti del mito comunista sono finiti invece nei movimenti ecologisti o addirittura nella droga, il che è perfettamente comprensibile alla luce dell’analisi psicopolitica, perché da un lato l’ecologismo consente di conservare il meccanismo psicologico della religione dogmatica sostituendo a Dio la Natura e a Satana il capitalismo mentre, dall’altro, la droga offre coi suoi paradisi chimici un surrogato del Paradiso terrestre dell’utopia rivoluzionaria o di quello celeste delle religioni dogmatiche. Ma il “grosso” del gregge e del clero comunista è rimasto a metà del guado: dotato di ogni tipo di salmeria e privilegio castale, ma privo delle vecchie idee entusiasmanti e incapace di darsene di nuove.

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