18-10-2010
Un’avvertenza: non farsi trarre in inganno dalle dimensioni del libro, e neppure dallo stile scorrevole e godibile del suo autore: “Leonardo Sciascia e i comunisti” di Emanuele Macaluso (Feltrinelli, pagg.157, 14 euro), è un libro denso, ricco di spunti, pieno di “cose”, leggi una decina di pagine e ti costringe a ritornare sui tuoi passi, a rileggere quel brano che ti accorgi d’aver preso sottogamba, e che invece va meditato…Seconda avvertenza: la lettura di questo libro è bene farla avendo sottomano altri volumi: “Il maestro di Regalpetra”, la bella biografia di Sciascia scritta da Matteo Collura (Longanesi), come lo stesso Macaluso consiglia; ma non solo: è utile non perdere di vista, consultare e compulsare “Leonardo Sciascia, deputato radicale 1979-1983” (a cura di Lanfranco Palazzolo, Kaos editore); “L’Alfabeto eretico”, sempre di Collura, sempre Longanesi; se avete fortuna, perché ormai non son facili da reperire: “Leonardo Sciascia”, di Antonio Motta (Lacaita); “Conversazione in una stanza chiusa”, a cura di Davide Lajolo (Sperling & Kupfer); “Giorni felici con Leonardo Sciascia”, ancora di Motta (Casagrande).
Macaluso, esponente e militante del PCI, una vita ricca e densa come poche e ora, ad onta degli anni che ci sono, una vitalità e una lucidità di analisi e pensiero invidiabile e di cui il PD non sa fare tesoro (e tanto più visto che Macaluso è critico e scettico), è stato da sempre amico di Sciascia: un’amicizia che dissensi politici e divergenze di opinione non hanno incrinato. “Riflettere oggi su Sciascia e i comunisti significa riconsiderare il legame tra Leonardo e chi, come me, gli fu amico, ma pure dirigente del PCI siciliano e nazionale; significa rivivere i momenti in cui la polemica divampò aspra…Perché solo adesso? Forse perché sono ormai vecchio e la mia memoria richiama fatti e immagini del passato, sollecitandomi a fare i conti con me stesso…”. I conti di Macaluso con Sciascia, ma, insieme, con il PCI, con il suo partito di una vita; e i conti di Sciascia con il PCI e il mondo che il PCI rappresentava.
Per molti anni Sciascia, pur non essendo mai stato comunista, si era trovato a fianco del PCI, e di tanti comunisti Sciascia era amico. Per tante ragioni: il PCI era il partito che stava all’opposizione, anche se spesso era un tipo di opposizione che non gli garbava troppo, incline com’era a compromessi e concessioni con la Democrazia Cristiana; e poi, in terra di Sicilia, in una certa stagione, il PCI era certamente il partito che più si opponeva e meno era compromesso con il potere mafioso; i suoi militanti quelli che con maggiore determinazione l’avevano combattuto. Poi, certo, il “milazzismo”, il compromesso storico a livello locale e nazionale, l’infelice esperienza di consigliere comunale a Palermo, presto finita, fino agli scontri durissimi: non solo le polemiche attorno all’“Affaire Moro”, anche prima: per esempio, le polemiche sull’impegno che si esigeva agli intellettuali negli anni di piombo, quell’accusa di “nikodemismo” lanciata da Giorgio Amendola; la querela presentata dal segretario del PCI Enrico Berlinguer a proposito dei supposti legami tra terroristi delle BR e paesi dell’Est europeo…Alla fine un solco incolmabile. In più di una conversazione privata, Sciascia si limitava a definire i comunisti “loro”, e con il tono di chi ne era ormai irrimediabilmente deluso. Ne fa fede il libro “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”. Può aiutare un brano contenuto nella biografia di Collura, citato anche da Macaluso: “…Nel suo immaginario di scrittore, la DC diventerà un mostro, un Leviatano dal corpo metà sirena (quella che attrarrà a sé le forze popolari, i partiti della sinistra), e metà drago (quella che contribuirà alla corruzione generalizzata del Paese). E finirà col diventare una zattera della Medusa, uscendone a pezzi: i comunisti che accorreranno a spartirseli a governare con essi, anziché approfittarne per propiziare il vero cambiamento…”. E ancora: “…Quello comunista, per lui nato in una zona povera della Sicilia, ed educato agli ideali di libertà e di promozione umana, era stato l’unico partito possibile, e lo sarà ancora fino a quando esso dimostrerà di voler fare opposizione, di essere opposizione; lui è un comunista alla Gide, ha più del cristianesimo che del marxismo…”.
A Lajolo che lo sollecita, Sciascia confida che del PCI ormai gli interessa “soltanto la gente che ci sta dentro al di sotto del piano decisionale: e che continua a essere la parte migliore di questo nostro paese”. La gente, le persone come Calogero Boccadutri, l’operaio di Favara, antifascista e comunista, quella figura di militante che a Sciascia piaceva “non perché avessero letto Marx o Lenin”, chiosa Macaluso, ma perché incarna “quel partito che sapeva intrecciare la lotta per la libertà a quella per la giustizia, per un cambiamento sociale e per un mondo migliore”. Affermazione, e considerazione, che tuttavia non gli impedirà, intervistato da “Repubblica” nel maggio del 1979, alla domanda: secondo lei il qualunquismo oggi, che cos’è?, di rispondere secco: “E’ la mancanza di idee e di ideologie. E’ il PCI”.
Fondamentalmente Sciascia, pur se avrà coltivato come tutti qualche illusione e patito quale delusione, aveva una sua opinione che mantiene ben ferma negli anni. Nell’appendice del libro di Macaluso si riporta una lunga conversazione con Amendola, pubblicata su “Il Mondo” del marzo 1972: “…E’ proprio quando l’opposizione viene meno, quando l’opposizione non fa in pieno il suo dovere, che comincia la fine della democrazia. Mi sembra inammissibile, o almeno dovrebbe essere inammissibile in un paese democratico, che il Partito Comunista, dopo aver lottato per 25 anni contro la DC, dopo aver criticato il modo di governare del partito cattolico, rinunci ora a rappresentare un’alternativa e si mostri disponibile per un governo insieme con la DC…”. E’, in fondo, quello che dirà sette anni dopo, accettando la candidatura nelle liste radicali: “…Rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà, rompere questa specie di patto tra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane…come dice il titolo del recente libro di Jean Danierl, questa è l’era della rottura, o soltanto l’ora…”.
Sono davvero tante le cose che si potrebbero dire, le riflessioni che suscita la lettura del libro di Macaluso, come in un gioco di domino; tra le tante quelle che ancor oggi gli sono rinfacciate, e nel modo più vile, dal momento che non si può più difendere; e sono accuse, affermazioni di stupidità volgare e di volgarità stupida che lasciano senza fiato. Come quella che ciclicamente viene sollevata, ma la cui paternità è del sociologo Pino Arlacchi: che ha avuto la bella idea (si fa per dire) di affermare che con “Il Giorno della civetta” Sciascia in sostanza ha scritto qualcosa che piaceva alla mafia fosse scritto, e che fa l’apologia del capo-mafia don Mariano Arena. Affermazione via via poi ripresa anche da altri, fino ad Andrea Camilleri. Qui ci si ritrova nella analoga situazione raccontata proprio da Sciascia sul “Corriere della Sera” del gennaio 1979. Quando a proposito delle corbellerie negazioniste di Robert Faurisson, osserva che ha ottenuto quello che voleva; perché da una parte giustamente in tanti avevano contestato, e con dovizia di argomenti e fatti, la negazione che fossero esistite le camere a gas naziste…tuttavia, “ecco che nel fatto stesso di doverla difendere – a prescindere dal modo in cui la si difende – la verità subisce una specie di sminuzione, di degradazione. E si finisce, inevitabilmente col rendere un servizio alla menzogna…”. Difficile, insomma, spezzare questo circolo vizioso senza venir meno a dei principi, ma al tempo stesso è difficile mantenere dei principi senza spezzarlo. Per tornare a “Il Giorno della civetta”, romanzo di cui tutti, un po’ pappagallescamente, declinano le categorie con cui il capo-mafia suddivide l’umanità: consapevoli di rendere un servizio alla menzogna nel senso indicato da Sciascia, varrà la pena di ricordare che la pagina cruciale è la precedente: quella in cui il capitano Bellodi, sentendosi sfuggire di mano il capo-mafia, grazie alle protezioni politiche romane, per un attimo – un attimo solo – cade nella tentazione di utilizzare i metodi al di là e al di sopra della legge, quei metodi che sotto il fascismo poté usare il prefetto Cesare Mori, per estirpare il fenomeno del brigantaggio e della mafia spicciola (perché è pur vero che quando cominciò a voler prendere di mira i livelli alti della “Cosa Nostra”, che già si era fatta regime, venne prontamente e sveltamente nominato senatore del Regno, promosso e rimosso). Bellodi respinge subito quella tentazione, e dice che – piuttosto – bisogna fare come in America, e seguire la pista del denaro, magari dell’inadempienza fiscale come si fece per incastrare a vita Al Capone, e comunque mettere mani e menti esperte nella contabilità delle aziende, e far i raffronti tra il livello di vita di certi funzionari dello Stato e il loro stipendio, tirandone “il giusto senso”. Insomma, seguire il denaro; e così far terra bruciata ai don Mariano Arena, privandoli delle complicità su cui possono contare. In ogni caso, combattere il malaffare e i mafiosi con la legge e i suoi strumenti, non porsi sopra e al di là. Questa grande lezione di diritto, di legalità, questa pagina che andrebbe mandata a memoria nelle scuole, per gli Arlacchi e i Camilleri è esaltare i mafiosi…Valga per tutti quello che dice Tullio De Mauro, fratello di Mauro, il giornalista de “L’Ora” impegnato in inchieste coraggiose di mafia, scomparso un giorno del 1970 e mai più tornato (neppure il cadavere è stato restituito):
“I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica…”.
Va dato atto a Macaluso di riconoscere con nettezza che era Sciascia dalla parte giusta, la condanna dei suoi detrattori non può essere più netta e decisa. Macaluso inoltre, ripercorrendo le polemiche scoppiate dopo il famoso articolo sui “professionisti dell’antimafia”, è tra i pochi a ricordare la riflessione di Giovanni Falcone raccolta dal giornalista Luca Rossi. A Macaluso viene in mente una pagina della “Storia di Giovanni Falcone” di Francesco La Licata che cita l’episodio. Il brano, più esteso, è riportato dallo stesso Rossi ne “I disarmati”, libro che – curiosamente – dopo una prima edizione non ha più avuto altre ristampe. Il brano, la riflessione ad alta voce di Falcone, dall’interessato mai smentita, è questo: “Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i ciglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini, e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio. Se lavorassero sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa…”.
Tutto si tiene. Gli stessi che accusavano Falcone di aver “tradito” erano gli stessi che avevano polemizzato con Sciascia con attacchi di rara sguaiataggine.
Per tornare a Sciascia e ai suoi rapporti con il PCI. Intervistato nel giugno del 1978 da “Le Nouvel Observateur”, lo scrittore riassumeva così i termini della questione: “…I miei rapporti con il PCI hanno conosciuto alti e bassi, un po’ come quella poesia di Manzoni, quando parlando di Napoleone dice che fu trascinato ‘due volte nella polvere, due volte nell’altar…’. Prima di pubblicare ‘Il Contesto’ agli occhi del PCI ero uno scrittore ‘buono e coraggioso’. Candidato per le liste comuniste, fui promosso a ‘grande scrittore’. Dopo le dimissioni, sono diventato ‘codardo’…in realtà una simile retorica piena di ingiurie non solo non mi induce a riflettere, anzi qualche volta persino mi diverte. A lungo andare i fulmini del PCI finiscono con l’essere comici”.
Anche a leggere il libro di Macaluso, che spesso ne prende le parti e comunque quasi mai condivide le ragioni che sono alla base di quei “fulmini”, si capisce che hanno fatto di tutto perché Sciascia potesse divertirsi.
All’inizio abbiamo detto che con questo libro Macaluso fa i conti anche con quello che è stato per tutta una vita il suo partito, con la sua storia. Sciascia, annota Macaluso, “parla ancora alla società di oggi e…la sinistra dovrebbe ripensare al suo difficile rapporto con lo scrittore racalmutese, per ripensare anche alla sua politica sulla giustizia. Non so se queste pagine potranno aiutare questo ripensamento. Ne dubito. Io le ho scritte perché sentivo di avere un debito con Leonardo…”.
Auguriamoci, invece, che Macaluso sia, prima o poi, smentito. Anche se il suo dubbio è qualcosa che, lo si deve riconoscere, afferra anche noi.
Giornalista professionista, attualmente lavora in RAI. Dirige il giornale telematico «Notizie Radicali», è iscritto al Partito Radicale dal 1972, è stato componente del Comitato Nazionale, della Direzione, della Segreteria Nazionale.
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