domenica, novembre 08, 2009

Leonardo Sciascia, vent’anni fa… 4)

Saremo perduti senza la verità.

Era un uomo, Leonardo Sciascia, di poche, brevi frasi, parole soppesate e quasi sofferte; chiunque lo ha conosciuto può testimoniare che un dialogo con lui era soprattutto fatto di lunghi silenzi, sguardi penetranti, qualche gesto, sorrisi ironici, guizzi e movimenti impercettibili…Figurarsi: quando venne eletto deputato nelle liste del Partito Radicale, deve essere stato un tormento per lui la vita parlamentare, quei riti, quel tanto parlare, quel ritmo a volte da pochade, così lontano dal suo modo di essere e vivere. Gli interessava soprattutto il caso Moro, e della commissione parlamentare d’inchiesta fece parte. La sua relazione di minoranza è ancor oggi uno dei pochi documenti su quella vicenda che il tempo non abbia logorato, ancora oggi una lettura preziosa e istruttiva.

Pochi ed estremamente concisi i suoi interventi in aula. Qualche foglietto vergato a mano, che poi lentamente leggeva. “Ingovernabili sono i Governi”, è il primo discorso parlamentare di Sciascia. Fallito il tentativo di confermare Giulio Andreotti alla presidenza del Consiglio, e caduta anche l’ipotesi di un governo a guida socialista presieduto da Bettino Craxi, la scelta del presidente della Repubblica Sandro Pertini cade su Francesco Cossiga, che forma un “consiglio” con la presenza di alcuni tecnici. La composizione del governo viene comunicata ai presidenti delle due Camere il 4 agosto; e il 9 comincia il dibattito sul programma che si concluderà con il voto di fiducia.

L’intervento “I posti di blocco a Palermo” è nell’ambito dello svolgimento di una serie di interpellanze sull’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine. Dal maggio 1975 al dicembre 1979, negli anni caldi del terrorismo, si contano 71 morti e 125 feriti per l’uso indiscriminato delle armi da fuoco da parte delle forze di polizia. In genere i caduti sono cittadini inermi che non si sono fermati all’intimazione dell’alt. Sciascia si rivolge al Governo “per conoscere i suoi intendimenti in relazione al tentativo di riprodurre surrettiziamente nel nostro ordinamento la pena di morte, per di più con esecuzione sommaria sul posto, attraverso l’estensione interpretativa dell’articolo 53 del codice penale, che configura un vero e proprio incoraggiamento alle forze di polizia all’uso delle armi, nella presunzione di stati di necessità, sulla base di intuizioni o di emozioni del momento”.

L’intervento “Cossiga come Fouché” si riferisce alla vicenda per la quale il Parlamento in seduta comune deve decidere se il presidente del Consiglio Cossiga debba essere messo in stato d’accusa, e riguarda l’attività terroristica di Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, ex ministro e vice-segretario della DC. Il giovane, che il padre non vede da molto tempo, è un militante di “Prima Linea”, e lo rivela agli inquirenti il “pentito” Patrizio Peci il 2 aprile 1980. Quando il padre viene a conoscenza della confessione di Peci, si rivolge al presidente del Consiglio per conoscere di cosa sia accusato il figlio; il colloquio si svolge il 24 aprile. Cossiga afferma di non aver fornito alcuna informazione, perché non v’erano neppure addebiti generici, ma di aver sostenuto l’opportunità che il giovane si costituisse. Carlo Donat Cattin invece sostiene di aver appreso che fino a quel momento non v’erano addebiti specifici, il che significa che v’era quanto meno l’addebito generico di partecipazione a banda armata. Il giorno dopo Donat Cattin cerca un contatto con il figlio attraverso un amico di Marco, Roberto Sandalo, al quale parla del colloquio con Cossiga. Il 29 aprile Sandalo, anch’egli militante di “Prima Linea”, viene arrestato, e dalle sue confessioni si apprende dell’incontro Donat Cattin-Cossiga. Di qui l’accusa al presidente del Consiglio di violazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Il Parlamento conclude con l’archiviazione.

Mafia e antimafia

C’è una pagina, di uno dei più famosi romanzi di Leonardo Sciascia, “Il Giorno della civetta”, che ogni magistrato e investigatore dovrebbe conoscere a memoria. Uno dei protagonisti della storia è il capitano dei carabinieri Bellodi: un ufficiale venuto dal nord d’Italia; ha combattuto la Resistenza, certamente è un democratico, forse simpatizza con qualche partito della sinistra, sicuramente è un laico. Costui si trova a dover fare i conti con il capo-mafia locale, don Mariano Arena; e a un certo punto è assalito da un dubbio, un sospetto. Per un attimo il capitano Bellodi ha la tentazione di fare ricorso a quei metodi spicci, al di là e al di sopra della legge che aveva usato Cesare Mori, il leggendario “prefetto di ferro”, lasciato libero da Mussolini di fare e abusare contro il brigantaggio prima, e i livelli “bassi” della mafia poi; perché quando Mori cominciò a lambire i livelli “alti” di Cosa Nostra, quelli che erano già compromessi con il regime – e anzi, del regime erano parte ormai integrante – venne nominato senatore; naturalmente per i suoi alti meriti e le sue indubbie qualità; cosicché, senza tanti complimenti, ma anche senza tanto clamore, se lo levarono dai piedi, in omaggio alla sempre aurea regola del “promuovi e rimuovi”.

A ogni modo, Bellodi per un attimo si culla in questa idea, che ancora oggi qualcuno vagheggia: di un uso della forza e dell’arbitrio, ma in nome dello Stato, contro la forza e l’arbitrio, a scopo diciamo così privatistico; nell’illusione che il fine possa giustificare il mezzo, e negandosi che, al contrario, il mezzo qualifichi il fine.

Bellodi però non cade in questa tentazione; ed ecco che arriviamo al nocciolo della questione; ed è evidentissimo che Sciascia in questo Bellodi si identifica pienamente:

“…Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende, revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze e gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e a tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…In ogni altro paese del mondo una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe duramente punita; qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto tempo per imbrogliare le carte…”.

Come si vede, Sciascia aveva capito tutto e l’aveva scritto, indicato. Nel 1960. Ha compreso, per esempio, che i mafiosi sono corazzati a sopportare qualunque cosa, detenzione e morte compresa: quella loro, dei congiunti, degli affiliati alla cosca; su una cosa però non transigono: il sequestro e la confisca dei beni che illecitamente sono entrati nella loro disponibilità. Guai a toccar la loro roba…

da Notizie Radicali n.1020 a cura di Valter Vecellio

4) Segue.

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