Non è, a questo punto, operazione inutile riproporre alcuni giudizi e opinioni che all’epoca vennero date. Un “hanno detto” di cui è bene serbare memoria:
…Come è suo costume, Sciascia dedica la sua intransigenza alle istituzioni, la sua pietà agli uomini.
(Geno Pampaloni, “Todo Sciascia”, “Il Giornale”, 1 ottobre 1978)
…Avanza il nostro uomo di lettere con un tomo di Voltaire nella sinistra e le massime di Charles Auguste Dupin infilate nel panciotto. Abile discendente dell’illuminismo, procede nella verbosa foresta di segni, attengo a ogni singola parola e allocuzione, soppesando gli incisi, rilevando contraddizioni, in breve aprendosi un varco tra le più infide, spesso interessate interpretazioni (di quei comunicati e quelle lettere)…A conferma della propria immagine Sciascia qui si vuole scrittore ancora più aguzzo e civile, proteso a valutare il peso di concretezza contenuto nei fatti, di proposito distorti di strumentalizzazioni assai più perverse, mascherati da imprevidenti e frettolosi commentati.
(Giuseppe Saltini, “Uno Stendhal autarchico”, “Il Messaggero”, 22 ottobre 1978)
…Estroso, bizzarro, capace di affascinare i colti e i meno colti, conoscitore sicuro del mondo siciliano vicino e lontano nelle sue pieghe più segrete…
(Domenico Bartoli, “Quel desiderio sacrosanto”, “Il Tempo” 26 ottobre 1978)
…Sciascia inclina sempre più a prendere le distanze dalle forme organizzate di realtà collettiva e a richiamare con aulico cipiglio i lettori alla meditazione sulla sorte morale se non metafisica dell’individuo…
(Vittorio Spinazzola, “Sciascia, la pretesa della verità”, “L’Unità”, 28 ottobre 1978)
…Sciascia si dichiara razionalista e illuminista, esalta Diderot e Voltaire, detesta Rosseau nemico della ragione, e in fatto di romanticismo dà ancora peso, a quanto sembra, a letture screditate come quella di Viereck. Ma anche il suo illuminismo, che in capo alla sua professione di fede mette i nomi di Hugo e di Stendhal (per non dire di Chateaubriand), sembra di un genere particolare. In tale contesto un’osservazione giusta e importante, va colta tuttavia. Non ha capito niente dell’Europa, dice Sciascia chi “ignora” l’importanza dei “Miserabili”, per la coscienza individuale e collettiva di due o tre generazioni. L’affermazione, forse eccessiva, per l’Europa, è certamente esatta per la Sicilia borghese o piccolo borghese: e la dice lunga sul “razionalismo” dello scrittore e sulla sua lettura di certi autori a cominciare da Manzoni…
(Rosario Romeo, “Una Trinacria per Sciascia”, “Il Giornale”, 12 agosto 1979)
…Con “Le Parrocchie di Regalpetra”, Sciascia si affermava, prendeva il via. Dentro c’era indubbiamente un retroterra culturale, cui giustamente tiene, ma che solo da allora gli è servito per l’articolazione in tanti libri di una sola grande storia, a cui lavora con regolarità, da artigiano che ama il mestiere, che lo diverte anche, e per cui può scrivere bene, senza “barare” col lettore…
(Leonardo Sacco, “Il matriarcato rovina il Sud”, “Gazzetta del Mezzogiorno”, 22 agosto 1979)
…Sciascia è dunque uno scrittore che per solito, con epiteto collaudato quanto malcerto, si è portati a definire “d’ispirazione virilmente civile”. Le sue indignazioni travalicano lo specifico spazio letterario, e la sua fama si è andata appunto accrescendo per motivi assai poco attinenti ai suoi impegni di prosatore. Dapprima il cinema, con dovizia pari alla malposta ambizione dei risultati, si è appropriato di alcuni suoi romanzi, poi, via via che le posizioni direttamente politiche dello scrittore assumevano maggiore incisività, prontezza d’intervento e un certo coraggio, la sua immagine si è vieppiù imposta…
(Giuseppe Saltini, “Dalla Sicilia il limite e la ricchezza”, “Il Messaggero”, 28 agosto 1979)
…La conclusione può essere una sola: una sola anche prima, per chi ha letto sempre Sciascia, ma soprattutto dopo questo suo ultimo libro (“La Sicilia come metafora”, ndr). E cioè che egli resta un alunno di Pirandello, sicilianissimo e insieme per niente siciliano, con una fantasiosa, creativa specializzazione, in quello che egli chiama il “romanzo poliziesco” e con una inclinazione letteraria che – questa sì – ha preso sempre più di stile, di gusto, di levità settecentesca e francese…
(Giuseppe Galasso, “Sciascia come Sicilia”, “Corriere della Sera”, 10 settembre 1979)
…La verità è colei che è. Alla luce di questa semplice, secca, perentoria affermazione è possibile, credo, capire quel che Sciascia intende quando parla della letteratura come della “più assoluta forma che la verità possa assumere”. Non si tratta certo di rivendicare alla letteratura una priorità metafisica, di assegnarle il gradino più alto di una ipotetica scala di valori: ma di ricordare che proprio chi parla per il piacere di parlare, per il “piacere del testo”, senza secondi o terzi fini, dice, può dire la verità. Lasciamolo parlare, dunque; e se possibile, ascoltiamolo.
(Giovanni Roboni, “Sciascia, c’è del marcio in questo nostro Stato”, “Tuttolibri”, 22 ottobre 1979)
una forte ipoteca grava da sempre sugli scrittori regionali; essa consiste nel sospetto che la loro sia una piccola verità, confinata entro gli angusti limiti di una terra che pochi conoscono. Eppure vige anche un principio opposto: che uno scrittore, cioè, sia tanto più universale quanto più è radicato nel particolare e tanto più vero quanto meno astratto…A questa alta ambizione, si è affacciato anche Leonardo Sciascia, che ha dichiarato essere la Sicilia, la sua Sicilia una metafora del mondo moderno, e di esserlo anche fisicamente, se è vero che egli dice, che ogni anno che passa, la realtà siciliana cresce di un palmo a invadere l’Italia e l’Europa.
(Rodolfo Quadrelli, “Le contraddizioni dell’illuminismo di Sciascia”, “Il Tempo”; 7 ottobre 1979)
…Anima lo scrittore un “illuminismo” che purtroppo qualcuno considera fuorimoda, fatto di concretezza e pensiero tollerante: una miscela razionale che molto servirebbe nei rapporti fra gli uomini. Ma anche per essere tolleranti occorrono delle certezze, bisognerebbe rispondere a svariate domande, uscire dai conformismi e dalle doppiezze e tornare al chi siamo, cosa vogliamo: !quel che è urgente in un paese come il nostro quasi sempre sommerso da una marea di conformismo, è il ristabilire i confini, le differenze, le identità…
(Gilberto Finzi, “Le accuse di Sciascia”, “Il Giorno”, 7 ottobre 1979)
…Ho sempre pensato che Leonardo Sciascia è l’ultimo grande scrittore di satire che ha ancora l’Italia. “Sono uno scrittore italiano”, egli ha detto una volta, “che conosce bene la realtà della Sicilia e che continua a essere convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi; di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire una metafora, che ci racconta i fatti della vita intensa,pirandellianamente, come il tragico “verum factum” per eccellenza”. Fatti e “misfatti” che Sciascia ci rappresenta con quella sua prosa semplice e piana (e quindi altamente classica) tanto simile al tono lento e assorto della sua voce…
(Luigi Compagnone, “Il fatti della vita”, “Il Mattino”, 15 ottobre 1979)
Di Leonardo Sciascia ho letto i libri e quell’ “Affaire Moro” che mi trova, per logica italiana, personalmente d’accordo. Li ho letti ed ammirati, così come guardo con attenzione quella attività pubblica e politica molto originale che Sciascia va conducendo da alcuni anni a questa parte in modo particolarmente clamoroso. Spesso mi sono detto: Sciascia è uno scrittore politico, se scrittore, nel senso di artista, di inventore, si può dire di un politico italiano e se politico si può dire di uno scrittore…
(Goffredo Parise, “Un moralista della Sicilia”, “Il Corriere della Sera”, 23 ottobre 1979)
…E’ il Leonardo Sciascia che ci è sempre piaciuto: uno scrittore da tutti ritenuto illuminista, chiaro e semplice, che invece è necessariamente oscuro perché impegnato in quel viaggio che distingue uno scrittore vero da uno falso, uno scrittore che pensa da uno che fa finta di pensare: il viaggio che si compie passando dal noto all’ignoto.
(Ottavio Cecchi, “D’ora in avanti che cosa leggeremo?”, “L’Unità”, 15 novembre 1979)
…La sostanza culturale di questo scrittore che crede di essere nipote di Voltaire, figlio di Pirandello e fratello di Borges è di derivazione squisitamente giornalistica…
(Ruggero Guarini, “Ma se era già noto a Flaubert”, “L’Europeo”, 22 novembre 1979)
…Leggendolo più volte mi sono chiesto se non sia il caso di vedere Sciascia fuori dai vecchi schemi. Magari chiedendoci se (come un altro narratore meridionale, Silone), non sia giunto a esprimere il massimo della sua vera vocazione come scrittore morale e cristiano. Infatti, lasciandoci dietro certo barocco spiritico di alcuni libri, la lunga inchiesta sul male come “mafia metafisica”, si sta facendo sempre più tragica, sempre più alta, sempre più limpida. Diciamo pure che la sua voce ormai riconferma un “classico””.
(Alberto Cavallari, “Sciascia all’incrocio con Manzoni”, “Il Corriere della Sera”, 9 dicembre 1979)
Un Voltaire in Sicilia. L’occhio scuro e inquisitore. Le mani che ogni tanto si agitano nell’aria come inseguissero qualcosa di invisibile. Lo scetticismo vellutato di osserva senza farsi coinvolgere troppo, Non vuole sporcarsi le mani, però gli piace stare alla distanza giusta per vedere e capire. Chi sia Sciascia in fondo all’anima, lasciamo perdere., Ma le parole che scrive, le confidenze che si lascia scappare mangiando un piatto di pasta con le fave, vanno nella direzione di un Voltaire siciliano che cerca di applicare la ragione, anche l’anticonformismo della ragione, a quel che succede nella vita quotidiana…
(Walter Tobagi, “Il mondo delle ideologie”, “Il Mondo”, 11 dicembre 1979)
Sciascia si è trovato molte volte al centro di polemiche. Inevitabile: lucidità, capacità intuitiva, prontezza nel cogliere l’essenza delle cose, coraggio e onestà intellettuale sono merce rara, chi la possiede, inevitabilmente, è lui a doverla pagare cara. Ne parleremo.
da Notizie Radicali n.1019 a cura di Valter Vecellio
3) Segue.
Nessun commento:
Posta un commento