Come parlavano gli Antichi Romani?
Io invece ti dirò come NON parlavano gli antichi romani: non parlavano il latino.
Sorpreso? Non dovresti esserlo. Ragioniamoci un po’ sopra: i romani hanno conquistato gran parte della penisola italiana già in epoca repubblicana. Sconfitti gli Etruschi, sottomessi altri popoli meno potenti come gli Osci e i Volsci, la lingua del Lazio, ovvero il latino, si diffonde in tutta la penisola romanizzata. Sicuramente questa lingua non era un monolito ma un “continuo dialettale”: è difficile credere che in tutto il Lazio del V secolo A.C. tutti parlassero la stessa identica lingua, dato che questo non accade neanche oggi. E la lingua latina parlata nell’Italia romana certamente si è diversificata e arricchita grazie al (o per colpa del) contatto con le lingue non latine parlate dai popoli romanizzati, generando nuovi dialetti e lingue locali nell’Italia centro-meridionale.
Il grande limite all’espansione romana fuori dalla penisola viene superato dopo oltre un secolo di guerre, con la sofferta vittoria sui Punici, che dominavano il Mediterraneo e avevano colonie lungo tutte le sue coste, dall’odierno Libano fino a Gibilterra e perfino sull’oceano Atlantico. Vinti i Punici, Roma conquista prima la Sardegna e la Corsica (III secolo A.C.) poi la costa mediterranea dell’Iberia e le isole Baleari (II secolo A.C.). Da questo punto in poi l’espansione romana in Europa e nord Africa è incontenibile.
Ma dal punto di vista linguistico la cosa più interessante è evidente da quello che è rimasto oggi da queste conquiste: le lingue locali non latine sono scomparse totalmente dai paesi conqustati dai romani (con l’eccezione del basco); tutti i popoli sottomessi ai romani hanno cominciato a parlare lingue e dialetti derivati dalle lingue parlate nel Lazio, adattati alle parlate locali, contaminati dalle lingue preesistenti, e certamente dalle parlate dei romani che hanno fisicamente conquistato e governato questi nuovi territori. Le lingue generate dalla romanizzazione di questi primi territori conquistati sono tantissime: conosciamo lo spagnolo, il portoghese e il francese, ma ci sono il galiziano, il catalano, il sardo, l’occitano, e tante altre che vengono chiamate spesso “dialetti” ma che dialetti non sono affatto. Queste lingue sono tutte diverse ma hanno chiaramente una matrice comune, che si ritrova nella grammatica, nel lessico e nella pronuncia. Ma derivano davvero dal latino?
Vediamo cosa hanno in comune queste lingue che il latino non ha:
tutte possiedono gli articoli determinativi, che nel latino mancano del tutto. Gli articoli determinativi hanno due origini precise: la parola “illum” che ha generato gli articoli dell’italiano, del francese e del castigliano, e la parola “ipsum” che ha generato gli articoli del sardo e del catalano antico,
nessuna (eccetto il rumeno) possiede il genere neutro, che in latino invece esiste,
nessuna (ancora una volta, eccetto il rumeno) usa le declinazioni, se non in modo “embrionale” (io, me, mi; tu, te, ti…), che in latino esistono e sono una parte fondamentale della grammatica,
tutte fanno il plurale aggiungendo una “s” al singolare, senza eccezioni fuori dalla penisola italiana e della Romania, mentre in latino il plurale ha regole complesse, parzialmente conservate nell'italiano e nella maggior parte delle lingue della penisola italiana
tutte fanno esteso uso di preposizioni per sostituire i casi: in italiano, come sappiamo dalle elementari, queste sono di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, nelle altre lingue romanze sono diverse ma molto simili. In latino queste preposizioni esistono, ma il loro uso è limitato, dato che la declinazione dei sostantivi permette di farne a meno.
tutte costruiscono il futuro aggiungendo "avere" al verbo, in modo più o meno trasparente. In italiano "farò" è una forma non trasparente di "fare ho" inteso come "ho da fare". In sardo è rimasto "appo a faghere" cioè "ho da fare" in modo perfettamente trasparente.
Tutte queste caratteristiche straordinariamente simili in tutte le lingue romanze moderne, fanno sospettare una origine comune. E’ molto difficile giustificare la convinzione diffusa che le lingue romanze siano nate solo nel medioevo, con il graduale declino del latino come lingua parlata. Se così fosse accaduto, in un’Europa dove già si parlasse il latino in posti lontani fra loro come Reims e Catania, Lisbona e Bucarest, sarebbe impossibile che le caratteristiche elencate sopra si potessero sviluppare indipendentemente e così sorprendentemente uguali in luoghi tanto diversi.
Ma è anche difficile ipotizzare che ci sia stata una comunicazione linguistica che ha coinvolto tutti i paesi di lingua romanza, tanto forte da unificarne le caratteristiche grammaticali su caratteri non latini. Se questo si può ammettere per la parlata di popolazioni vicine e che commerciavano assiduamente fra loro, come i popoli della penisola italiana e quelli dell’Iberia, ciò non si può certamente estendere a tutta l’Europa latinizzata.
Resta una sola spiegazione: esisteva, fin dal III secolo A.C. e certamente anche prima, una lingua diversa dal latino (inteso come “latino classico”, quello insegnato a scuola) che veniva parlata comunemente, tanto da evolvere nelle lingue parlate nelle provincie romane, e infine nelle lingue romanze moderne, e che conviveva con il latino “classico”, quello che oggi chiamiamo latino.
Questa lingua la possiamo chiamare “latino volgare” ovvero il latino (inteso come lingua del Lazio) parlato dal volgo, dal popolo. Era certamente parlata dalla gente comune, ovvero dalla grande maggioranza dei romani, ed era certamente suddivisa in molti dialetti, non essendo una lingua scritta né codificata nella grammatica, nel lessico e nella pronuncia. Anzi, per dirla tutta, il "latino volgare" non è altro che una comoda denominazione collettiva per raccogliere insieme tutti i dialetti della romanità eccetto il latino cosiddetto "classico".
Il latino volgare non appariva nella letteratura, se non sporadicamente, perché i suoi parlanti non consumavano né producevano letteratura, essendo in gran parte analfabeti. Ma era certamente parlata a molti livelli: non solo dai braccianti agricoli e dai lavoratori di basso rango nelle città, ma da commercianti e militari, burocrati e pubblici dirigenti, altrimenti non avrebbe potuto lasciare tracce così forti come sono tutte le lingue neolatine esistenti oggi. Infatti una lingua “volgare” parlata solo da braccianti e manovali non avrebbe potuto dare origine a tutte (tutte!) le lingue romanze che esistono in Europa, mentre il latino “classico” non ne ha generata nessuna (con il dubbio caso del rumeno). Certamente nelle provincie i romani non potevano parlare altro che il volgare con i popoli locali a tutti i livelli: lavoro, comando, giustizia, burocrazia e commercio.
E il latino classico? Era la lingua della letteratura e della burocrazia, della legge e della religione. Era una lingua scritta, colta, usata da pochi o da nessuno nelle relazioni quotidiane con gli altri. Si può pensare che chi parlava latino fosse fluente anche in almeno un dialetto volgare, e che, ad esempio, un senatore, recitasse le sue orazioni in latino classico, ma poi, fuori dalle aule del Senato, parlasse volgare con i suoi pari, così come non tanti anni fa, e a volte ancora oggi, un avvocato siciliano o romagnolo avrebbe pronunciato in italiano la sua arringa in tribunale, per poi passare alla lingua locale, il cosiddetto “dialetto”, fuori dall’aula, per parlare informalmente con i colleghi.
E come nell’Italia dell’unione non c’era nessuno che parlasse solo, esclusivamente italiano, è difficile pensare che nella Roma repubblicana, e nei territori romanizzati, ci fosse qualcuno che parlava solo, esclusivamente latino classico. La situazione più verosimile è quella di una “diglossia” in cui le persone più colte parlavano almeno due lingue: un dialetto volgare e latino classico, mentre il volgo parlava solo latino volgare, o al più aveva una conoscenza passiva del latino classico: lo capiva senza essere capace di parlarlo.
Chi ha più di cinquant’anni e ha vissuto in un ambiente rurale, o almeno lontano dalle grandi città italiane, conosce certamente questa situazione: in un piccolo paese italiano, dovunque, dalla Sardegna al Friuli, dalla Val d’Aosta alla Puglia, tutti parlavano la lingua locale, e solo alcuni sapevano parlare bene l’italiano. Per uno straniero che parlasse solo italiano la comunicazione era difficile, ma non impossibile dato che molte persone capivano l’italiano pur senza parlarlo. Nelle zone di frontiera non era raro imparare tre o quattro lingue fin dall’infanzia. Il mono-linguismo limitato alla lingua ufficiale della Nazione, che è la norma oggi, solo pochi decenni fa era una rarità. Se uno parlava una sola lingua, questa era certamente la lingua locale, o dialetto, o volgare, e non l’italiano. Non c’è motivo di credere che le cose fossero molto diverse negli stessi luoghi, 2500 anni fa.
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