domenica, settembre 29, 2024

Cos'è la GIUSTIZIA RIPARATIVA ?


LA GIUSTIZIA RIPARATIVA, UN NUOVO TERRENO PER LA CULTURA PENALISTA

Edoardo Caprino  

da Nessuno tocchi Caino  flash

La giustizia riparativa è una delle discipline di saperi che si stanno ampliando maggiormente ed è il più nuovo di tutti gli sviluppi dell’ambito giuridico. Ed è proprio la giustizia riparativa a essere scelta tra le materie premiate dalla Fondazione Internazionale Balzan che ha attribuito il prestigioso premio a  John Braithwaite, professore emerito dell’Australian National University “per il suo contributo allo sviluppo teorico e alla diffusione della prassi della giustizia riparativa contemporanea, per il suo impegno a servizio delle istituzioni e della costruzione sociale, per il suo lavoro di alta divulgazione scientifica ed editoriale, per la sua dedizione alla crescita culturale delle più giovani generazioni nei valori della giustizia riparativa”.

La giustizia riparativa nasce dalla constatazione che il reato è esercizio di potere, di sopraffazione sulla vittima, è un’azione violenta che provoca una ferita molto spesso fisica ma anche materiale e morale e la giustizia ha il compito di innescare un processo di guarigione. Per questo motivo la giustizia riparativa si affianca alla giustizia tradizionale che si amministra nei tribunali manifestandosi nella rappresentazione dell’incontro, che ne è un punto cardine. Un incontro che è liberamente accettato al momento opportuno tra le vittime e i difensori, ed eventualmente da altre persone significative per gli uni e per gli altri. Con l’aiuto di un mediatore si affrontano domande molto semplici ma decisive per le persone coinvolte: Cos’è accaduto? Perché quel fatto? Quali persone sono state colpite? Perché proprio loro? Cosa si può fare per dare prospettive future a tutti i soggetti coinvolti? La giustizia riparativa non va quindi confusa con un atto di clemenza, pe rché essa richiede al difensore di assumersi tutte le proprie responsabilità davanti alle vittime e alla comunità coinvolta. Reintegrative Shaming è il concetto elaborato da John Braithwaite che riassume perfettamente questa tipologia di approccio.

Trent’anni di pratica della giustizia riparativa contemporanea e di studi su di essa mostrano che questi incontri danno un grande sollievo alle vittime, permettendo un’idea di ristoro. Ed è importante sottolineare come questo approccio permetta una significativa diminuzione della recidiva attraverso la reintegrazione sociale degli offensori.

John Braithwaite è uno dei fondatori degli studi e della prassi della giustizia in epoca contemporanea, senza le sue opere la giustizia riparativa non avrebbe guadagnato né la necessaria credibilità accademica, né la fiducia delle Istituzioni internazionali che ora la promuovono e la supportano a ogni livello.

Alcuni dei suoi concetti sono divenuti di dominio generale, in particolare l’idea di Responsive Regulation, che allude a una forma di regolamentazione responsiva che sa valorizzare i comportamenti positivi dei consociati che, fin dall’inizio o a valle di un illecito, decidono di osservare volontariamente le regole. L’ampiezza delle pubblicazioni di Braithwaite è sconfinata sia per interessi coltivati sia per il numero di volumi e di articoli pubblicati ma soprattutto è ampia la comunità di studiosi, di giovani generazioni che in tutto il mondo diffondono la cultura e gli studi sulla giustizia riparativa.

Braithwaite non si è mai chiuso nella sua torre d’avorio, ha speso moltissime energie nella costruzione di realtà sociali e di una società civile dove la giustizia riparativa potesse essere praticata. Ha contribuito in modo decisivo a sorreggere questa prassi sociale con un’architettura normativa istituzionale riconosciuta e che potesse dare vita a un sistema complementare alla giustizia tradizionale. Negli anni più recenti si è sviluppata la riflessione su questo ambito in relazione ai grandi problemi della nostra epoca: sostenibilità, guerra, pace, cambiamento climatico, finanza, salute; e lo ha fatto con il pensiero rivolto ai grandi conflitti del nostro tempo.

Merita una particolare sottolineatura il progetto di Braithwaite: Peacebuilding compared che studia i grandi conflitti di oggi e i processi di ripristino della pacificazione, per mettere in evidenza gli elementi di successo anche a fronte dei grandi conflitti armati che affliggono il nostro tempo. La giustizia riparativa è una strada fruttuosa e semplice, percorribile sia per i grandi dilemmi del nostro tempo, sia per piccole ma brucianti conflittualità che affliggono la vita quotidiana di ognuno.



La lingua latina e le altre

Come parlavano gli Antichi Romani?
Io invece ti dirò come NON parlavano gli antichi romani: non parlavano il latino.




Sorpreso? Non dovresti esserlo. Ragioniamoci un po’ sopra: i romani hanno conquistato gran parte della penisola italiana già in epoca repubblicana. Sconfitti gli Etruschi, sottomessi altri popoli meno potenti come gli Osci e i Volsci, la lingua del Lazio, ovvero il latino, si diffonde in tutta la penisola romanizzata. Sicuramente questa lingua non era un monolito ma un “continuo dialettale”: è difficile credere che in tutto il Lazio del V secolo A.C. tutti parlassero la stessa identica lingua, dato che questo non accade neanche oggi. E la lingua latina parlata nell’Italia romana certamente si è diversificata e arricchita grazie al (o per colpa del) contatto con le lingue non latine parlate dai popoli romanizzati, generando nuovi dialetti e lingue locali nell’Italia centro-meridionale.

Il grande limite all’espansione romana fuori dalla penisola viene superato dopo oltre un secolo di guerre, con la sofferta vittoria sui Punici, che dominavano il Mediterraneo e avevano colonie lungo tutte le sue coste, dall’odierno Libano fino a Gibilterra e perfino sull’oceano Atlantico. Vinti i Punici, Roma conquista prima la Sardegna e la Corsica (III secolo A.C.) poi la costa mediterranea dell’Iberia e le isole Baleari (II secolo A.C.). Da questo punto in poi l’espansione romana in Europa e nord Africa è incontenibile.

Ma dal punto di vista linguistico la cosa più interessante è evidente da quello che è rimasto oggi da queste conquiste: le lingue locali non latine sono scomparse totalmente dai paesi conqustati dai romani (con l’eccezione del basco); tutti i popoli sottomessi ai romani hanno cominciato a parlare lingue e dialetti derivati dalle lingue parlate nel Lazio, adattati alle parlate locali, contaminati dalle lingue preesistenti, e certamente dalle parlate dei romani che hanno fisicamente conquistato e governato questi nuovi territori. Le lingue generate dalla romanizzazione di questi primi territori conquistati sono tantissime: conosciamo lo spagnolo, il portoghese e il francese, ma ci sono il galiziano, il catalano, il sardo, l’occitano, e tante altre che vengono chiamate spesso “dialetti” ma che dialetti non sono affatto. Queste lingue sono tutte diverse ma hanno chiaramente una matrice comune, che si ritrova nella grammatica, nel lessico e nella pronuncia. Ma derivano davvero dal latino?

Vediamo cosa hanno in comune queste lingue che il latino non ha:

tutte possiedono gli articoli determinativi, che nel latino mancano del tutto. Gli articoli determinativi hanno due origini precise: la parola “illum” che ha generato gli articoli dell’italiano, del francese e del castigliano, e la parola “ipsum” che ha generato gli articoli del sardo e del catalano antico,
nessuna (eccetto il rumeno) possiede il genere neutro, che in latino invece esiste,
nessuna (ancora una volta, eccetto il rumeno) usa le declinazioni, se non in modo “embrionale” (io, me, mi; tu, te, ti…), che in latino esistono e sono una parte fondamentale della grammatica,
tutte fanno il plurale aggiungendo una “s” al singolare, senza eccezioni fuori dalla penisola italiana e della Romania, mentre in latino il plurale ha regole complesse, parzialmente conservate nell'italiano e nella maggior parte delle lingue della penisola italiana
tutte fanno esteso uso di preposizioni per sostituire i casi: in italiano, come sappiamo dalle elementari, queste sono di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, nelle altre lingue romanze sono diverse ma molto simili. In latino queste preposizioni esistono, ma il loro uso è limitato, dato che la declinazione dei sostantivi permette di farne a meno.
tutte costruiscono il futuro aggiungendo "avere" al verbo, in modo più o meno trasparente. In italiano "farò" è una forma non trasparente di "fare ho" inteso come "ho da fare". In sardo è rimasto "appo a faghere" cioè "ho da fare" in modo perfettamente trasparente.
Tutte queste caratteristiche straordinariamente simili in tutte le lingue romanze moderne, fanno sospettare una origine comune. E’ molto difficile giustificare la convinzione diffusa che le lingue romanze siano nate solo nel medioevo, con il graduale declino del latino come lingua parlata. Se così fosse accaduto, in un’Europa dove già si parlasse il latino in posti lontani fra loro come Reims e Catania, Lisbona e Bucarest, sarebbe impossibile che le caratteristiche elencate sopra si potessero sviluppare indipendentemente e così sorprendentemente uguali in luoghi tanto diversi.

Ma è anche difficile ipotizzare che ci sia stata una comunicazione linguistica che ha coinvolto tutti i paesi di lingua romanza, tanto forte da unificarne le caratteristiche grammaticali su caratteri non latini. Se questo si può ammettere per la parlata di popolazioni vicine e che commerciavano assiduamente fra loro, come i popoli della penisola italiana e quelli dell’Iberia, ciò non si può certamente estendere a tutta l’Europa latinizzata.

Resta una sola spiegazione: esisteva, fin dal III secolo A.C. e certamente anche prima, una lingua diversa dal latino (inteso come “latino classico”, quello insegnato a scuola) che veniva parlata comunemente, tanto da evolvere nelle lingue parlate nelle provincie romane, e infine nelle lingue romanze moderne, e che conviveva con il latino “classico”, quello che oggi chiamiamo latino.

Questa lingua la possiamo chiamare “latino volgare” ovvero il latino (inteso come lingua del Lazio) parlato dal volgo, dal popolo. Era certamente parlata dalla gente comune, ovvero dalla grande maggioranza dei romani, ed era certamente suddivisa in molti dialetti, non essendo una lingua scritta né codificata nella grammatica, nel lessico e nella pronuncia. Anzi, per dirla tutta, il "latino volgare" non è altro che una comoda denominazione collettiva per raccogliere insieme tutti i dialetti della romanità eccetto il latino cosiddetto "classico".

Il latino volgare non appariva nella letteratura, se non sporadicamente, perché i suoi parlanti non consumavano né producevano letteratura, essendo in gran parte analfabeti. Ma era certamente parlata a molti livelli: non solo dai braccianti agricoli e dai lavoratori di basso rango nelle città, ma da commercianti e militari, burocrati e pubblici dirigenti, altrimenti non avrebbe potuto lasciare tracce così forti come sono tutte le lingue neolatine esistenti oggi. Infatti una lingua “volgare” parlata solo da braccianti e manovali non avrebbe potuto dare origine a tutte (tutte!) le lingue romanze che esistono in Europa, mentre il latino “classico” non ne ha generata nessuna (con il dubbio caso del rumeno). Certamente nelle provincie i romani non potevano parlare altro che il volgare con i popoli locali a tutti i livelli: lavoro, comando, giustizia, burocrazia e commercio.

E il latino classico? Era la lingua della letteratura e della burocrazia, della legge e della religione. Era una lingua scritta, colta, usata da pochi o da nessuno nelle relazioni quotidiane con gli altri. Si può pensare che chi parlava latino fosse fluente anche in almeno un dialetto volgare, e che, ad esempio, un senatore, recitasse le sue orazioni in latino classico, ma poi, fuori dalle aule del Senato, parlasse volgare con i suoi pari, così come non tanti anni fa, e a volte ancora oggi, un avvocato siciliano o romagnolo avrebbe pronunciato in italiano la sua arringa in tribunale, per poi passare alla lingua locale, il cosiddetto “dialetto”, fuori dall’aula, per parlare informalmente con i colleghi.

E come nell’Italia dell’unione non c’era nessuno che parlasse solo, esclusivamente italiano, è difficile pensare che nella Roma repubblicana, e nei territori romanizzati, ci fosse qualcuno che parlava solo, esclusivamente latino classico. La situazione più verosimile è quella di una “diglossia” in cui le persone più colte parlavano almeno due lingue: un dialetto volgare e latino classico, mentre il volgo parlava solo latino volgare, o al più aveva una conoscenza passiva del latino classico: lo capiva senza essere capace di parlarlo.

Chi ha più di cinquant’anni e ha vissuto in un ambiente rurale, o almeno lontano dalle grandi città italiane, conosce certamente questa situazione: in un piccolo paese italiano, dovunque, dalla Sardegna al Friuli, dalla Val d’Aosta alla Puglia, tutti parlavano la lingua locale, e solo alcuni sapevano parlare bene l’italiano. Per uno straniero che parlasse solo italiano la comunicazione era difficile, ma non impossibile dato che molte persone capivano l’italiano pur senza parlarlo. Nelle zone di frontiera non era raro imparare tre o quattro lingue fin dall’infanzia. Il mono-linguismo limitato alla lingua ufficiale della Nazione, che è la norma oggi, solo pochi decenni fa era una rarità. Se uno parlava una sola lingua, questa era certamente la lingua locale, o dialetto, o volgare, e non l’italiano. Non c’è motivo di credere che le cose fossero molto diverse negli stessi luoghi, 2500 anni fa.

La storia di Jasper Maskelyne by Ioannis

Persone insospettabili hanno mai cambiato le sorti di una guerra?
Perché ho lo stimolo di urinare quasi ogni ora durante la notte? Mi devo preoccupare? (nel caso servisse l'informazione, l'urina è quasi trasparente)
Da un po' di tempo a questa parte non riesco più a trattenere la pipì e rischio sempre di farmela addosso, quale potrebbe essere la causa?
Quale immagine fa riflettere sulla vita?
Chi fu un eroe italiano pressoché dimenticato da tutti?

LUCA GUALA   da QUORA

lunedì, luglio 22, 2024

Il vecchio e il mare





[  Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo di nome Manolo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo aveva ubbidito andando in un'altra barca dove prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all'albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand'era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.]

Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l'amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani ne parlavano come di el mar al maschile. Ne parlavano come di un rivale o di un luogo o perfino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvagie era perché non poteva evitarle.
Guardò il mare e capì fino a che punto era solo, adesso. Ma vedeva i prismi dell'acqua scura profonda, e la lenza tesa in avanti e la strana ondulazioni della bonaccia. Le nuvole ora si stavano formando sotto l'aliseo e guardando davanti a sé vide un branco di anatre selvatiche stagliarsi nel cielo sull'acqua, poi appannarsi, poi stagliarsi di nuovo, e capì che nessuno era mai solo sul mare.
Il vecchio aveva visto molti pesci grossi. Ne aveva visti molti che pesavano più di quattro quintali e mezzo e ne aveva già presi due di quelle dimensioni in vita sua, ma non era mai stato solo. Ora, da solo e in pieno mare aperto, era legato al pesce più grosso che avesse mai visto e di cui avesse perfino sentito parlare, e aveva la mano sinistra ancora serrata come la morsa degli artigli di un’aquila.
"Mezzo pesce" disse. "Tu che sei stato un pesce. Perdonami di essere andato troppo al largo. Ho mandato in malora tutti e due. Ma abbiamo ucciso molti squali, tu e io, e ne abbiamo mandato in malora molti altri. Quanti ne hai uccisi tu, vecchio pesce? Non hai certo quella spada sulla testa per niente."
"L’ho ucciso per autodifesa” disse il vecchio ad alta voce. “E l’ho ucciso bene.” E poi, pensò, tutti uccidono tutti gli altri in un modo o nell’altro. La pesca mi uccide proprio come mi dà da vivere. È il ragazzo a darmi da vivere, pensò. Non devo esagerare a ingannare me stesso.

Ernest Hemingway, da Il vecchio e il mare - Traduzione di  Fernanda Pivano

lunedì, giugno 24, 2024

BIOPLASTICA ? LA PAROLA AL "libro bianco di Eppendorf"

 17 GIUGNO 2024 09:15 PDT

La bioplastica spiegata: quanto bio ci si può aspettare dalla plastica

SPONSORIZZATO DA: Eppendorf



In un mondo che preme verso la sostenibilità, il passaggio dalle tradizionali plastiche a base fossile alle alternative a base biologica sta guadagnando slancio. Comprendere le complessità di questi materiali è fondamentale per la loro efficace integrazione, soprattutto in ambienti sensibili come i laboratori. Il libro bianco di Eppendorf, scritto dalla Dott.ssa Kerstin Hermuth-Kleinschmidt di NIUB Sustainability Consulting, approfondisce il campo delle plastiche a base biologica, offrendo una prospettiva chiara e scientifica sulla loro applicazione e sull'impatto ambientale.

Intitolata "La bioplastica spiegata: quanto 'bio' puoi aspettarti dalla plastica?", questa guida completa demistifica le varie categorie di plastica a base biologica, evidenziandone vantaggi, limiti e idoneità all'uso in laboratorio. Il libro bianco esplora le definizioni essenziali e le sfumature tra plastica di origine biologica, biodegradabile e compostabile, garantendoti di prendere decisioni informate in linea sia con le tue esigenze scientifiche che con gli obiettivi di sostenibilità.

Perché leggere questo libro bianco?

Chiarezza sulle definizioni: comprendere cosa significa realmente bioplastica, comprese le distinzioni tra materiali di origine biologica, biodegradabili e compostabili.

Applicazioni di laboratorio: scopri perché alcuni tipi di bioplastica sono più adatti all'uso in laboratorio rispetto ad altri e perché le varianti biodegradabili potrebbero non essere la scelta migliore.

Approfondimenti sulla sostenibilità: ottieni informazioni su come l'utilizzo della plastica di origine biologica può ridurre significativamente le emissioni di CO2 e la dipendenza dalle risorse fossili, contribuendo a un ambiente di laboratorio più sostenibile.

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Questo white paper è una risorsa indispensabile per i responsabili dei laboratori, i responsabili della sostenibilità e chiunque sia coinvolto nell'approvvigionamento di materiali di consumo da laboratorio e si impegni a ridurre l'impatto ambientale senza compromettere la qualità o le prestazioni.

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