di Mariano Giustino
Grazie ai due giornalisti i crimini contro l’umanità commessi in Cecenia da Putin, nella sua guerra nichilista di sterminio, non sono avvenuti a porte completamente chiuse. Ventidue anni sono trascorsi dal suo omicidio, da quando il suo corpo fu trovato, il 16 ottobre 2000, sulla strada che da Tbilisi porta al confine con l’Armenia
16 Ottobre 2022 alle 16:14
A ventidue anni dall’assassinio di Antonio Russo i responsabili non sono stati ancora assicurati alla giustizia, così come è avvenuto per la giornalista Anna Politkovskaja.
Antonio era un “cronista minuzioso” - come amava dire il compianto Massimo Bordin, allora direttore di Radio Radicale. “Raccoglieva notizie e descriveva la spietatezza della guerra che ogni giorno, nell’indifferenza di tutti, produceva vittime e di tutto questo faceva una ricostruzione quotidiana: tanti morti, tanti feriti, tanti scomparsi, tanti profughi, in un assordante silenzio generale. Amava mescolarsi e confondersi con le vittime fino a condividerne il quotidiano e il dramma della guerra”, raccontava Bordin.
Parlare di Antonio significa parlare di coraggio civile, di giornalismo di guerra, di informazione, di verità, del diritto degli ultimi, dei dimenticati e di informazione come testimonianza. Significa parlare di quelli che vivono la guerra in prima persona, perché la subiscono e ne soffrono per le gravi conseguenze.
Egli è morto nel pieno della tragedia cecena che con la sua testimonianza cercava di portare alla luce dinanzi alla comunità internazionale nella speranza di impedirne il compiersi.
Il modo più semplice e diretto per conoscere Antonio Russo è l’ascolto delle sue straordinarie corrispondenze dai terribili teatri di guerra degli anni Novanta, dall’Algeria come dai Grandi Laghi del genocidio africano, dalla Bosnia, dal Kosovo, fino alla Cecenia.
Il suo prezioso lavoro di valoroso corrispondente è ascoltabile in un’apposita sezione dell’archivio di Radio Radicale, dove è racchiusa la documentazione che indica il percorso da lui compiuto grazie al quale è possibile tracciare un’analisi storico-critica necessaria per comprendere la sua personalità e la sua lotta da “radicale giornalista”, come lo amava definire Marco Pannella.
Ventidue anni sono trascorsi dal suo assassinio, da quando il suo corpo fu trovato, il 16 ottobre 2000, sulla strada che da Tbilisi porta al confine con l’Armenia, a 25 chilometri dalla capitale della Georgia, poco distante da una base militare russa e dal Caucaso meridionale tornato in fiamme, non ancora pacificato.
L’autopsia effettuata sul corpo di Antonio non riscontrò tracce di ferite da incidente stradale o da aggressione, ma i suoi organi interni erano distrutti. Aveva ancora al collo una catenina con un crocifisso d’oro. Il suo appartamento di Tbilisi era stati messo a soqquadro e risultavano mancanti la videocamera, il registratore, le cassette Vhs e i taccuini, mai più ritrovati. Nulla più si è saputo sulla sua uccisione, non si conoscono gli autori né i mandanti del suo assassinio.
Sappiamo però che è stato schiacciato come un insetto, in perfetto stile Kgb, da chi in quei giorni, la Russia di Putin, tentava di imporre l’espulsione del Partito radicale dall’Onu, cioè di annullarne lo status di Ong, con l’accusa di appoggio al terrorismo ceceno. Il voto era fissato per il 18 ottobre 2000, ma quel giorno l’Onu respinse la richiesta russa.
Antonio è morto per contribuire a che si evitasse che la tragedia in atto in Cecenia si compisse fino in fondo. Nel suo ultimo intervento pubblico ad una conferenza sui danni ambientali causati dal conflitto ceceno, tenutasi in Georgia, parlò di un probabile uso, da parte di Mosca, di proiettili all’uranio impoverito nella repubblica caucasica e, nel corso di una telefonata aveva detto alla madre, pochi giorni prima di morire, di essere in possesso di una videocassetta dal contenuto esplosivo, nella quale si documentavano le torture perpetrate dall’esercito russo ai danni della popolazione civile cecena.
Antonio non lavorava per sé, ma per l’umanità. Egli ebbe modo di dire in alcuni dei suoi rari interventi pubblici che era molto importante fornire documenti, fatti, per costringere la comunità internazionale a lavorare, tutta assieme, per fermare la guerra in Cecenia e che per questi motivi era lì, per informare e documentare a livello internazionale quanto accedeva nel Caucaso.
E in questo Antonio era molto “radicale” perché voleva che i diritti della persona diventassero “Diritto”.
Parlare di Antonio significa parlare di guerre nascoste, dimenticate. Come era appunto la guerra in Cecenia: guerre delle quali era impedito a chiunque di documentare l’orrore.
Antonio Russo è stato il tenace cronista del ghetto di Groznyj; è stato, secondo la definizione di Barbara Spinelli, “una lampada accesa nel cuore del ghetto in fiamme”.
Aveva documentato anche la Guerra dei Grandi Laghi, la mattanza tra gli Hutu e i Tutsi e i sanguinosi scontri avvenuti in Algeria.
Prima che in Caucaso era stato in Kosovo, dove rimase, ultimo giornalista europeo, a raccontare la “pulizia etnica” da una casa nella Pristina vessata dai rastrellamenti dell’armata serba. Sparì dalla capitale kosovara alla fine del marzo del 1999 mescolandosi a tutti gli altri in un treno di profughi diretto in Macedonia.
Libertà di informazione e ricerca della verità sono state l’ispirazione e la grande lezione di Antonio Russo e di Anna Politkovskaja. Le sue profonde e appassionate convinzioni si traducevano in una rigorosa ricerca che esigeva una severa e continua verifica oggettiva, da grande giornalista.
L’orizzonte di Antonio era quello della nonviolenza e della costruzione dello Stato di diritto e della democrazia nel mondo, con la creazione di quella legalità internazionale che è la vera garanzia di giustizia e dunque di pace nel pianeta.
A quanti continuavano a gridare come in un mantra “pace, pace, pace” – così come accade anche in queste ore in cui si sta consumando la tragedia ucraina causata dall’invasione dell’armata russa in spregio agli accordi vigenti e ai trattati internazionali - Antonio Russo, contrapponeva, in Kosovo come in Cecenia, la necessità del rispetto del diritto internazionale, dei diritti umani, della libertà e l’affermazione della democrazia. La pace per Antonio consisteva nell’affermazione della giustizia e nella liberazione dei popoli dall’oppressore; nel sostenere gli abitanti di un paese aggredito affinché riconquistasse ciò che era stato ad esso ferocemente sottratto.
Auspicava dunque un impegno serrato della comunità internazionale per la rimozione degli ostacoli che si frappongono “all’affermazione e alla difesa del diritto naturale, storicamente acquisito, di ogni individuo alla libertà e alla democrazia”.
Non amava il pacifismo ipocrita come quello dei “partigiani per la pace” che inveivano contro le armi americane ed esaltavano quelle sovietiche.
Quelli non vogliono la pace, vogliono la capitolazione degli aggrediti.
Nel suo scrupoloso lavoro di corrispondenza di guerra non ha mai mancato di sottolineare il fatto che non vi può essere pace senza giustizia e diritti, ponendo sempre ben in evidenza la differenza tra chi è aggredito e chi è aggressore.
Questa sua condizione di nonviolento gandhiano, e di pacifista non ideologico, lo ha portato ad auspicare, per la salvezza della vita della popolazione kosovara, l’intervento militare della Nato.
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