Frammenti dall’orrore dei lager.
L’Olocausto dei gay nel cinema (sperimentale) di Jo Coda
Disponibile (gratuitamente) su www.streeen.org dalle 8 di mattina alla mezzanotte del 27 gennaio “Il rosa nudo” di Giovanni Coda ispirato al libro autobiografico di Pierre Seel: arrestato dai nazisti per omosessualità, fu torturato e deportato. Sopravvissuto, quasi quarant’anni dopo, decise di raccontare la sua storia. Che il regista inscena attraverso una rappresentazione stilizzata e simbolica, un’evocazione per rappresentare l’irrappresentabile…
“Mi sono rimasti da narrare frammenti solo casuali”. Il deportato Pierre Seel non pensa a ricordare, si concentra sul sopravvivere. Per questo è un racconto frastagliato, per brandelli, quello de Il rosa nudo di Giovanni Coda. Il film, girato dal regista nel 2013 e totalmente autoprodotto con crowdfunding, è liberamente ispirato proprio all’autobiografia di Pierre Seel, dal titolo francese Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel, scritta con Jean Le Bitoux (edizioni Calmann-Lévy).
Un titolo – appunto – che dice tutto: nel 1939 il giovane alsaziano Pierre denuncia al commissariato il furto di un orologio, avvenuto in un parco noto come ritrovo gay. Così, a sedici anni, viene schedato nei registri degli omosessuali tenuti dall’autorità: a seguito dell’invasione tedesca della Francia verrà convocato dalla Gestapo, arrestato e torturato.
Il 13 maggio 1941 è la data della sua deportazione nel campo di concentramento di Schirmeck. Sopravvissuto all’Olocausto non ne parlò con nessuno, si sposò ed ebbe tre figli. Nel 1982 la decisione di scrivere il libro, dopo aver ascoltato gli attacchi contro i gay del vescovo di Strasburgo: da qui la necessità di rendere pubblica la storia, per respingere altre persecuzioni. Seel, scomparso nel 2005, è stato l’unico cittadino francese a testimoniare apertamente sull’esperienza di deportazione per omosessualità durante la seconda guerra mondiale.
Questa la storia, autoevidente senza commenti. Ma Il rosa nudo è un film sperimentale. Il regista cagliaritano Giovanni Coda, nell’arco di 70 minuti, ricostruisce la storia attingendo al materiale letterario in voce off, e non solo. L’immagine si apre su una rosa inquadrata in fuori fuoco, che gradualmente si delinea davanti ai nostri occhi. Poi schermi nello schermo, segnali, trasparenze e sovrimpressioni: Coda non ricostruisce la vicenda in modo lineare, ma evoca le torture per via simbolica e stilizzata, in bianco e nero o colori desaturati.
Ecco allora gli attori, come Massimo Aresu e Giovanni Dettori, che mimano l’esperienza della deportazione, la richiamano, formano un’eco del suo tragico umore. Con uno stile rigorosamente anti-naturalistico, degradando i corpi, strappando i capelli, l’autore arriva quindi a rappresentare l’irrappresentabile: ciò che avvenne nel campo di Schirmeck, che ovviamente non è dato vedere per l’occultamento del regime, qui torna attraverso la messinscena.
Il racconto si apre poi all’universale, toccando le storie di altre omosessuali vittime di deportazione. Coda si schiera così nella disputa novecentesca sul se e come inscenare un campo di sterminio: sceglie di restituirlo con il suo cinema sperimentale, fatto di corpi straziati, simboli e segni.
Una strategia che forma la parabola di Pierre Seel, a cui fu cucito il triangolo rosa riservato agli omosessuali (da titolo), e che vide uccidere il compagno davanti ai suoi occhi dopo giorni di torture. Sino a generare il paradosso: “Sono stato fortunato – dice -, oltre ad aver assistito alla morte del mio compagno ed essere stato violentato, non mi è accaduto altro”.
Il rosa nudo satura un vuoto: lo aveva fatto Radu Jude con The Dead Nation, scoperchiando la persecuzione antisemita contro gli ebrei rumeni. Lo ha fatto Emmanuel Finkiel con La douleur tratto da Marguerite Duras, togliendo un altro velo, quello sulle mogli che aspettano i deportati. Altri dovranno cadere. Ma intanto Giovanni Coda ha portato la sua pietruzza.
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