Propongo alla riflessione singola e magari collettiva questi due articoli che pongono una serie di interrogativi di genere che ci riguardano tutti, nella nostra vita quotidiana. Per provare a viverci un po' meglio e consapevolmente.
AMg
Gli uomini sono confusi
E parte un master in mascolinità
da Corriere della Sera - la 27ma ora
di Luca Mastrantonio
Prima di andare avanti a leggere, pensate a cosa vuole dire, per voi, esser un «uomo buono». Fatto? Ora pensate a cosa vuole dire essere un «vero uomo». Bene, avete appena partecipato alla prima lezione del master in «Studi sulle mascolinità» del professore di sociologia Michael Kimmel, che dirige il Center for the Study of Men and Masculinities alla Stony Brook University, Stato di New York.
Come racconta sul New York Times Jessica Bennett, allo stupore degli studenti
Kimmel ha reagito invitandoli a immaginare che la frase «era un brav’uomo» venga detta al loro funerale; espediente narrativo efficace, oltre che macabro e formidabile lapsus (vuole celebrare il funerale del vecchio maschio monolitico). Kimmel ha poi tracciato sulla lavagna due colonne; da una parte «l’uomo buono»: cioè premuroso, altruista, onesto; dall’altra il «vero uomo» (qui le risposte sono arrivate più rapidamente): ovvero autoritario, che sa rischiare, che vince la debolezza, che cammina come un vero uomo e non piange mai… Sorpresi dalla diversità delle risposte? Ci sono molti modi di essere uomini, ha chiosato Kimmel, che spiega come la teoria di genere, vessillo del femminismo e delle comunità omo e bisex, vada applicata anche ai maschi.
Così le neo-femministe esulteranno e le sentinelle cattoliche scatteranno in piedi allarmate; i post-comunisti italiani, invece, penseranno di aver anticipato i tempi quando nel 1977 nelle sale usciva Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci, con Roberto Benigni: siamo in un circolo rosso, dove si discute di tematiche femminili e, dal pubblico, un uomo lamenta, bofonchiando in toscano, che si sta trascurando il punto di vista maschile: «La donna, la donna, la donna… ma l’uomo?».
Non resta che un dubbio, di genere accademico: un master sulla mascolinità è un «buon master»? Ed è anche un «master vero»?
Ma alla fine voi chi preferite
tra l’uomo bravo e quello vero?
di Barbara Mapelli
L’elzeviro di Luca Mastrantonio del 9 agosto ( vedi sopra) ha tutte le caratteristiche di quello che dichiara e vuole essere: un appunto breve, leggero, su un tema che può interessare sia chi di tematiche di genere si occupa, sia chi non ne ha sentito parlare se non episodicamente e non desidera comunque approfondire. Ma parlare di mascolinità appassiona, sempre e comunque, uomini e donne. Anzi direi che negli ultimi anni – e lo affermo per esperienza diretta – l’interesse anche di un pubblico non particolarmente preparato, durante un dibattito ad esempio, si accende con più vigore quando, da riflessioni di ordine generale o dedicate ai temi più tradizionali dei pensieri e saperi femministi, ci si volga a discutere appunto di mascolinità: problemi, mutamenti, fatiche, difficoltà di relazione e di ricerca di sé che affliggono gli uomini del contemporaneo – salvo quelli, sorta di lastre di marmo, sui quali i cambiamenti scivolano via senza, apparentemente, lasciare traccia. E l’interesse, come dicevo, è sia maschile che femminile.
Mastrantonio racconta dei master che Michael Kimmel propone in università ai suoi studenti – ma non si tratta certo di una novità: questi studi di genere, men’s studies, si tengono da tempo nelle accademie non solo statunitensi, ma anche di molti paesi europei (non in Italia, che io sappia) – interessante però è il focus per l’avvio del corso che lo studioso americano propone: la distinzione tra «uomo buono» e «uomo vero» e, con poco stupore da parte mia devo ammettere, la distinzione appare netta, diviene ben presto nelle risposte di studenti (e studentesse suppongo) un’opposizione. Le qualità che formano il «vero uomo» sono quelle della pedagogia tradizionale del «sii uomo», che ha tentato di trasformare fragili e teneri corpi bambini in guerrieri temerari, avventurosi, dediti a conquiste di ogni natura e certamente incapaci, almeno palesemente, di versare una lacrima. Consentite, le lacrime, solo se virili, si veda Achille che piange la morte di Patroclo, tanto per fare un esempio e quel che segue poi è una sinfonia di sangue. Tutto ciò in ogni epoca e in ogni parte del mondo.
L’uomo buono invece di lacrime ne può versare quante ne vuole, e inoltre è premuroso, sensibile, accudente, ricco di ogni virtù che tradizionalmente siamo abituati a definire femminile. Dunque un duro lavoro aspetta e spetta ai nuovi uomini che lo vogliano: trasformarsi da aspiranti uomini veri ad aspiranti uomini buoni è un rovesciamento di prospettiva, anche un po’ pericoloso mi sentirei di aggiungere, perché il rischio è quello di buttar via anche quel che di buono la tradizione della cultura patriarcale ha costruito nel tempo sull’immagine maschile. Coraggio, senso di reponsabilità, riservatezza…
Un lavoro difficile, dunque, doloroso, che riprende in mano ciò che mascolinità o virilità hanno sempre significato e che comporta per ciascun uomo rimettersi in discussione, rivedere una costruzione di identità che in nome del guerriero, presunta finalità di crescita – e il guerriero può anche essere guerriero della penna o del pennello – ha significato il successo di una buona educazione. Perché se è vero, come qualcuno ha detto, un uomo senz’altro, che la mascolinità non è qualcosa che si ha ma che si deve continuamente dimostrare, gli uomini impegnati in questa nuova impresa si trovano ancora una volta a dover dimostrare qualcosa: che provano sentimenti, che sanno curare i bambini, che sanno amare con tenerezza, che sanno piangere…e via così.
Ma dimostrare a chi? A sé innanzi tutto, agli altri uomini e alle donne.
Ma noi donne – e il quesito non appaia ozioso – siamo più propense ad amare o comunque restare affascinate da un uomo vero o da un uomo buono?
Ce la siamo poste spesso questa domanda tra noi, nei nostri gruppi, di femministe e non, di diverse generazioni. Ed è una domanda seria perché scava nel profondo non solo nell’immagine che noi abbiamo o desideriamo degli uomini, ma nell’immagine che si rispecchia in noi di ciò che significa femminilità, relazione con l’altro sesso. Direi addirittura che riguarda anche le donne che amano le donne, perché l’impasto di culture che ci ha forgiate è un misto di componenti maschili e femminili che guida gli ideali e desideri di amore e si impone nei rapporti, etero od omo che siano.
Ma torno alle storie mie, etero, e di alcune amiche con cui ho condiviso la domanda: dai sorrisi inziali siamo ben presto arrivate ad affrontare con serietà il quesito, perché ci siamo rese conto di come l’uomo vero ancora occupi, almeno in misura significativa, il campo del desiderio femminile, anzi, per essere più precise, un uomo vero le cui virtù tradizionali appaiano non tanto mitigate quanto arricchite da qualche pennellata di virtù nuove, da uomo buono, ma con molta moderazione. Insomma un ministro dell’economia molto democratico, spavaldo, provocatorio e in giubbotto di pelle, oppure un attore sul tappeto rosso di Cannes che si presenta con tutta la sua avvenenza maschia, con il suo procedere con passo altrettanto maschio, ma sappia piangere per commozione e si asciughi le lacrime, alzando magari il braccio tatuato, con una mano in cui la forza appaia latente perché lenita dal momento denso di commozione, ma pronta a riproporsi con tutta la sua possanza.
Esagero evidentemente, ma non mi sottraggo – nonostante l’età avanzata o forse me lo posso permettere proprio per questo stesso motivo – all’ammissione, che abbiamo condiviso tra amiche, che l’uomo vero, con le sue qualità più tradizionalmente maschie, suscita ancora tra noi emozioni e desideri, più dell’uomo buono.
Ma allora quali forme di seduzione dovrà inventarsi quest’ultimo per non relegarsi al ruolo, gratificante e comodo, ma non del tutto soddisfacente, di amico?
Cosa può affascinare in lui, al di là di tenerezza e sentimenti buoni, quando lo vediamo cambiare il pannolino del suo bambino o del bambino di una cara amica?
Questi ultimi interrogativi, spogliati della loro paradossalità, mi fanno pensare che molta strada devono fare gli uomini sul percorso di una ridefinizione di mascolinità, ma che anche noi donne occorre che riflettiamo su di noi e sulle immagini d’amore e di relazione con l’altro sesso che ci abitano. Insomma per noi non è mai finita, sono quarant’anni, almeno, che decostruiamo e ricostruiamo e talvolta, forse spesso, ci ritroviamo a scoprire o riscoprire in noi come i sedimenti delle culture tradizionali dei sessi siano ancora potenti, creino dibattiti e lotte accese nel parlamento interno di ciascuna, abbiano bisogno di confronti continui che lambiscano quei territori ancora misteriosi in noi e fuori di noi, donne e uomini.
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