RIVELAZIONI
Insisto nel separare e distinguere i due termini fondamentali e ricorrenti nel discorso sul rapporto tra religiosità, chiesa e stato: "laicità" e "laicismo".
I laicisti negano che tra i due termini vi sia una differenza effettiva, e attribuiscono alle astuzie dei clericali un distinguo artificiosamente escogitato sostengono - per screditare il laicismo e poter indisturbati dialogare, adesso persino blandendoli, con i laici, isolati, stremati e ridotti a una laicità "sana" perché inoffensiva.
Un saggio di rigorosa qualità scientifica da poco in libreria (Luca Diotallevi: "Una alternativa alla laicità", Rubbettino 2010) mi dà invece ragione, sia pure utilizzando una terminologia differente dalla mia. Per Diotallevi, la "laicità" (in italiano) va distinta dalla "laicité" (in francese).
La "laicité" francese definisce e caratterizza quel movimento culturale/politico che, evolvendosi e via via irradiando dalla Francia nel corso del secolo XIX, portò alla realizzazione di un "progetto" e di una "pratica" di "assoluta autonomia del politico e di egemonia di questo sul pubblico", non solo nelle sfere dell'economia o della scienza ma anche sui temi della famiglia, dell'arte e - infine - della religione.
"Laicité" è dunque il "termine che giunge a denominare il progetto dello stato a riguardo della religione" esattamente nelle modalità con le quali lo analizza il mio "laicismo".
Sono molto lieto di una messa a punto, corretta ed esaustiva per chiunque non sia prevenuto, che ribadisce quanto già contenuto nella mia definizione che ha il laicismo al posto della "laicité". In qualche misura l'autore del bel saggio concorda anche con il seguito del mio ragionamento - tutto di stampo federalista - quando avverte che la crisi della "laicità" - concettualmente risucchiata a sua volta dalla/nella "laicité" - è conseguenza non tanto della "rinascita del ruolo pubblico della religione" quanto della crisi storica dello stato (nazionale, aggiungo io) e della sua "pretesa di sovranità" assoluta.
Alla "laicité" Diotallevi contrappone il modello statunitense della "religious freedom".
Dove è la differenza tra i due termini? L`autore sottolinea con forza che "il regime di 'religious freedom' è espressione di una visione nella quale la teoria non riassume in sé né esaurisce la realtà, non ne descrive per intero le condizioni di funzionamento né tantomeno le produce tutte e le impone...".
Nel presente clima di frenetici tentativi di ridefinizione della laicità, Diotallevi mostra una chiara indicazione per il percorso americano, nel quale le "religious clauses" del "Bill of Rights" - entrato in vigore quindici anni dopo la promulgazione della Costituzione del 1791 -tendono a realizzare un sistema politico imperniato sulla regola del "checks and balances" tra i poteri politici e le forze sociali.
E chi non prova ammirazione -persino, se è un europeo lacerato da contraddizioni, conflitti e dissensi, un bel po' di invidia - per questo flessibile sistema, aperto ad ampie forme di sussidiarietà? Beh, a me tanta ammirazione pare sia eccessiva, e sono convinto che il modello della "religious freedom" americana - una volta accantonata la rituale pratica (di stampo massonico?) del "God bless America", probabile calco dell'anglicano "God cave the Ring" non è troppo distante da quello europeo, magari nella versione italiana e cavourriana del "libera chiesa in libero stato".
Anzi, forse il modello d'oltreatlantico è di un rigore che nell'Italia di oggi susciterebbe l'indignazione dell'ufficialità cattolica e dei suoi dirimpettai di stato. Sentite J. F. Kennedy, in un discorso del settembre 1960, due mesi prima delle elezioni presidenziali:
"Credo in un'America in cui la separazione della chiesa e dello stato è assoluta, in cui nessun prelato cattolico dica al presidente (se è cattolico) che cosa fare; e nessun pastore protestante dica ai suoi parrocchiani per chi votare; un paese in cui nessuna chiesa o scuola confessionale riceva fondi pubblici o goda di privilegi; dove a nessuna persona venga negato l'accesso alla vita pubblica perché la sua religione è diversa da quella del presidente che ha il diritto di nominarlo, o degli elettori che potrebbero eleggerlo. Credo in un'America che non è ufficialmente né cattolica né protestante, né ebrea, nella quale nessun uomo pubblico chiede o accetta istruzioni, su questioni di pubblico interesse, dal Papa, dal Consiglio nazionale delle chiese o da qualsiasi fonte ecclesiastica, dove nessun organo religioso cerca d'imporre la propria volontà direttamente o indirettamente sulla popolazione o sugli atti pubblici dei suoi funzionari, e dove la libertà religiosa è così indivisibile che ogni azione contro una chiesa è un`azione contro tutte".
Il saggio di Diotallevi si raccomanda per altre importanti analisi, su cui sarà bene tornare.
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