lunedì, marzo 12, 2007

Il carattere laico e pubblico della scuola

Il carattere laico e pubblico della scuola: punti di vista a confronto
da newsletter Ecumenici

Tavola rotonda

Intervento di Nicola Pantaleo
Presidente Nazionale dell’Associazione promotrice dell’evento a Milano lo scorso anno

Nell’accingermi a intervenire a questa Tavola Rotonda ho pensato che era impossibile trattare in un breve lasso di tempo, quale quello che mi è consentito, i numerosi aspetti e risvolti delle questioni insite nel titolo. Pertanto mi autolimiterò ad alcuni cenni generali per poi venire alla specificità della scuola pubblica italiana.
Anzitutto credo che non sia superfluo intendersi preliminarmente sul senso del termine laicità e sulle sue implicazioni. Escludendo dal nostro campo di analisi il laicismo, inteso come ideologia che ha il suo simmetrico opposto nel clericalismo, la laicità non è necessariamente da identificarsi come la caratteristica di chi non ha una credenza religiosa. E’ certamente possibile questa accezione ma, ad esempio, nell’uso corrente che ne fanno le chiese laico è spesso il membro di una comunità religiosa che non esercita la funzione di ministro di culto. Nell’uso del termine che ne faremo prevale invece il senso di una visione politica ed intellettuale che afferma l’indipendenza della vita pubblica e delle sue istituzioni dall’influenza di una determinata confessione che esercita una qualche forma di potere nella società. In questo senso si potrà parlare di una laicità ‘passiva’, cioè neutrale e indifferente alla dinamica religiosa, ovvero ‘attiva’, che cioè di quella dinamica intende essere interprete e mediatrice nel senso di assicurare uguali opportunità alla varie confessioni religiose, promuovendone il confronto e lo scambio reciproco in una dimensione di attenzione alla fenomenologia religiosa nel suo insieme. E’ evidente che a questa seconda accezione ci riferiamo nel prosieguo di questo discorso.
I valori che una laicità così contrassegnata postula sono la libertà e l’uguaglianza, il rispetto rigoroso e la difesa dei diritti di tutti i soggetti interessati.
Sullo scenario europeo l’insegnamento del fatto religioso si configura in modalità diverse e che variano da stato a stato. Vi sono situazioni di chiese presenti con propri programmi recepiti dallo stato, come in Grecia, Romania e nei paesi scandinavi, e, all’opposto, nazioni come la Francia in cui tradizionalmente lo stato non consente alcun insegnamento della religione né in forma confessionale e neppure in forma aconfessionale. Nei paesi a prevalenza cattolica (Austria, Belgio, Irlanda, Polonia e paesi latini in genere) la gerarchia esercita un ruolo attiva per i programmi, i libri di testo, la scelta dei docenti, mentre nei paesi a prevalenza protestante l’approccio è di carattere laico e spesso profetico, aperto al confronto e anche al rispetto di posizioni irreligiose: una situazione molto variegata su cui è recentemente calato come un colpo di maglio il dibattito sulle radici culturali dell’Europa.
Se ci caliamo ora sul terreno dell’istruzione in Italia, vediamo che vi sono alcuni seri problemi e nodi irrisolti che cercherò di trattare sinteticamente.
Abbiamo anzitutto il paradosso della vigenza di un insegnamento religioso cattolico nella scuola di Stato che, pur essendo facoltativo, come ha sentenziato la Corte Costituzionale, tagliando corto a molte ambiguità delle politiche ministeriali dell’istruzione, è inserito nel quadro delle discipline obbligatorie. Noi ci battiamo per il superamento del Concordato del 1984, che pure aveva innovato rispetto al precedente, rifiutando la nozione di religione di Stato e sostituendo la scelta propositiva dell’insegnamento della religione cattolica rispetto alla sua obbligatorietà, proponendo un insegnamento delle religioni nella storia per tutti gli studenti, ravvisando nella conoscenza dei vari sistemi religiosi un fattore di pace e solidarietà. Ma la Chiesa cattolica è assolutamente chiusa a tale prospettiva, che pure viene ventilata da alcuni studiosi al proprio interno, nella gelosa difesa dei propri privilegi.
Se si pensa poi alle frequenti violazioni (preghiere, celebrazione di riti, venerazione di immagini ecc.) delle norme statuite da due sentenze di TAR regionali, non impugnate dalle autorità ministeriali, che fanno divieto di svolgere manifestazioni confessionali negli edifici scolastici e durante l’orario delle lezioni, l’emergenza laicità nella scuola pubblica appare seria e preoccupante. E se poi a tale quadro già pesantemente negativo si aggiungono i finanziamenti in forme varie, e sovente surrettizie, alle scuole private parificate, in larghissima prevalenza cattoliche, e le migliaia di cattedre, finanziate con pubblico denaro, ‘regalate’ con concorso riservato ai docenti di religione cattolica, designati dai vescovi, la misura appare colma. Altra ragione di contenzioso, che ha assunto toni da crociata, è stata la ‘battaglia dei crocifissi’ che ha visto una demagogia populista in chiave clericale, spalleggiata e alimentata dalla Moratti, spingersi a pretenderne non solo la non rimozione nelle aule in cui erano affissi, come aveva decretato un giudice abruzzese raccogliendo la protesta di un genitore non cattolico, ma l’ostensione tout court anche laddove tale affissione non era avvenuta in precedenza.
L’Associazione “31 ottobre per una scuola laica e pluralista”, che qui rappresento, ha fatto di questi temi una ragione forte della sua presenza e della sua azione, dispiegando una sensibilizzazione di genitori e studenti ai propri diritti, nella gelosa tutela di una laicità costantemente minacciata da iniziative di dirigenti scolastici, insegnanti e organi collegiali il più delle volte non compiutamente consapevoli delle implicazioni delle loro decisioni. A tale compito l’Associazione assolve anche attraverso diffide e azioni legali, ricorsi ai TAR regionali o, il più delle volte, ‘rammentando’ agli interessati i loro doveri e i limiti delle loro prerogative.
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Curriculum scolastico tra cultura e morale: in margine alle indicazioni della Riforma Moratti
Francesco Cappelli
dirigente scolastico – vicepresidente CIDI sez. di Milano


Partirei da una premessa. Pur essendo io un Dirigente Scolastico in servizio permanente attivo, non ho nessun problema ad espormi e a dire che, nei confronti della Riforma Moratti, ho sempre avuto un’obiezione di fondo: perché non si riesce a superare l’idea che per far funzionare la scuola occorra inserirla in un sistema di pensiero? Perché la scuola deve per forza sposarne uno? Perché si deve, nel caso specifico, sposare il “Bertagna learning”? È tempo invece che la scuola si affranchi da sistemi di pensiero, ma impari tenerli presenti tutti, cioè impari a fare una vera integrazione culturale.
Passiamo ora al tema affidatomi. Tema complesso e invitante, per sviluppare il quale cercherò di evidenziarne alcuni nodi e alcuni possibili sviluppi.

1. Cos’è il curricolo?
Anzitutto, il concetto di curricolo scolastico: lontano da definizioni tecniche e dalla esplorazione delle diverse teorizzazioni, il curricolo si può definire come l’insieme delle proposte di insegnamento e di studio che nel tempo vengono intenzionalmente prodotte, organizzate, realizzate nel contesto del sistema scolastico nelle sue articolazioni definite come ordinamenti (ad esempio 1° ciclo con scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di 1° grado).
Tale insieme, nella forma di sequenza coerentemente sviluppata di contenuti e obbiettivi, dovrebbe avere almeno la caratteristica (che non vedo molto nei documenti della Riforma) della unitarietà, che conferisce al sapere esplorato legami di significato nell’ambito della cosiddetta trasversalità (o “contaminazione plurima”), offrendo una dimensione della conoscenza non frammentata (discipline come compartimenti stagni), ma via via accresciuta attraverso strategie non solo di trasmissione, ma anche e in misura marcata di costruzione fondata, di metodo della ricerca, di verità perseguite ma mai complete ed esaurienti, di risposte a domande “legittime” (far scoprire agli alunni che dentro ogni percorso c’è sempre una possibilità infinità di collegamenti).
Il curricolo vive su due dimensioni: quella della proposta intenzionale dei docenti e quella tradotta, e non sempre riscontrabile in modo approfondito, dagli alunni nel loro percorso di crescita culturale. Queste due dimensioni non sono sempre in sintonia: si misura anzi il successo della prima in termini di distanza dalla seconda (spesso l’alunno apprende nonostante la proposta didattica).

2. L’efficacia del curricolo
Dal momento che un curricolo efficace nella proposta si riconosce nel processo di crescita, ci si può chiedere: sono rintracciabili nelle prestazioni e nelle competenze degli alunni le sue linee guida, il respiro culturale profondo, la visione del mondo che ne scaturisce, la coerenza o meno con le dichiarazioni d’intenti? La risposta a questa domanda definisce e identifica l’efficacia formativa del curricolo.
Il curricolo è in realtà un artefatto, un dispositivo che ispira una serie di azioni, ne indica gli sbocchi possibili, ma non dà di per sé garanzie di successo. Pur rappresentando nell’insieme una proposta culturale di formazione complessiva, che mira a costruire una dimensione umana matura, armonicamente sviluppata, equilibrata nelle diverse specializzazioni del sapere, nulla ha in sé di così potente da garantire la qualità dell’esito finale.
Per avere efficacia il curricolo ha bisogno di determinate condizioni, ha bisogno di altri curricoli, più reali, vivi, concreti, cioè le vite, intese come flusso di esperienze comunicative ininterrotte, di stimoli che hanno plasmato le menti ben prima e ben più in profondità di quanto la scuola offra. Gli alunni, i docenti con i loro vissuti, con le competenze che il vivere e il relazionarsi anche affettivamente forma invariabilmente, sono le condizioni obbiettive senza le quali la proposta formativa non si traduce, non vive, non si cimenta. Ciò è vero soprattutto oggi: mentre infatti cinquant’anni fa, la scuola rappresentava realmente una novità per l’alunno, essendo l’unico luogo in cui si potesse apprendere, oggi la scuola rischia di fossilizzare la mente.
Il curricolo non è ciò che sta scritto, ma ciò che arriva agli alunni. No dunque ad un apparato culturale preconfezionato e predigerito, che per sua natura è non caratterizzato; no ad un elenco di contenuti vuoti. Sì invece ad un curricolo che risponda a domande “legittime”, cioè domande che non hanno già una risposta.

3. Cultura, morale e curricolo
Quale dialettica tra i due termini? Può una proposta culturale offrirsi senza una visione morale, senza cioè indicare, di volta in volta, cosa è giusto o sbagliato, cosa è buono o cattivo, cosa è vero o è falso, cosa racchiude un significato e quale, cosa aiuta a capire e cosa porta confusione, cosa eleva l’animo umano e cosa lo deprime, cosa rende uguali e cosa disuguali, cosa è di tutti e cosa è di pochi e (se) come può diventare di tutti.
Analogamente gli alunni, i docenti con il loro curricolo implicito, sono portatori di una cultura e di una visione morale, di un sistema di giudizio della realtà che invariabilmente guida, in modo a volte coerente, spesso contraddittorio, il loro agire sociale.
Non esiste una cultura neutra o neutrale: quella proposta dalla scuola ha tentato spasmodicamente di essere tale. Don Milani ci ha insegnato che non c’è riuscita. Senza peccare di visione ideologica, possiamo affermare che ogni sistema socioeconomico tende a costruire la propria scuola, a proporre cioè un orizzonte culturale tendenzialmente conformista, anodino, conservatore.
Ciò vuol dire nella sostanza che la scuola raramente, nella proposta curricolare, sa indicare il nuovo inteso come prospettiva da esplorare: anzi, il nuovo del mondo, della società in evoluzione entra nella scuola dopo lunga quarantena e molto spesso, in termini di elaborazione culturale, non ci entra mai!
I legislatori di turno paiono più preoccupati di dettare un curricolo culturale elegante, coerente ed esaustivo, che di proporre percorsi capaci di diventare curricolo autentico in atto. E lo fanno così bene, con tale empito e pomposità che è difficile (vedi le Indicazioni morattiane) trovare qualcosa che non vi sia rappresentato: in verità qualcosa manca, ad esempio un accenno anche banale, a quella “ fola “ dell’evoluzione. Non è assenza da poco, perché viene a mancare non un capitolo, ma un intero approccio scientifico di ricerca e di metodo.
I moderni curricoli hanno come elemento di qualificazione il profilo finale o di uscita dell’alunno (il famigerato PECUP della riforma): tale profilo dovrebbe delineare, in sintesi, le caratteristiche culturali della personalità dell’alunno, le sue competenze complessive nell’affrontare il proprio progetto personale: in realtà esiste il forte rischio di delineare un alunno teorico, obbiettivamente mostruoso.
Un profilo che presenta aspetti valoriali, singolarmente rispettabili, ma complessivamente ascrivibili ad una determinata visione culturale e morale, è un profilo irreale, forzato, alla fine velleitario.
Con ciò non possiamo esimerci da una domanda: esiste una ispirazione auspicabile, dal punto di vista culturale e morale, in una società pluralista e aperta come l’attuale (definizione da approfondire e analizzare criticamente, evidenziando le contraddizioni), da proporre all’interno di un curricolo scolastico, in forme non prescrittive?
Credo che la risposta debba essere positiva: un siffatto curricolo dovrebbe avere una forma che, pur mantenendo un carattere unitario, non abbia la pretesa della esaustività.

4. modesta e misurata proposta di un curricolo aperto al pluralismo culturale e ad una visione morale autenticamente laica e democratica
· Sul piano culturale indica strategie di sviluppo della conoscenza, utilizzando anche contenuti in sequenza, ma evidenziando con crescente complessità i nuclei fondanti di ogni disciplina in vista delle competenze attese per gli alunni.
· I nuclei fondanti dovrebbero avere riferimenti storici relativi allo sviluppo delle discipline, per dare la dimensione reale del pluralismo implicito: gli apporti di contenuto e di metodo di qualunque disciplina hanno provenienze e ascendenze, storicamente riscontrabili, le più diverse. Civiltà anche lontane hanno sempre dialogato, contribuendo a creare un corpo di conoscenze che ha organizzato il meglio del pensiero e della ricerca umana. La cultura è globalizzata da sempre.
· Nell’approccio pluralista un curricolo di studio dovrebbe delineare le esperienze culturali utili a formare una persona capace di comprendere le ragioni (storiche, antropologiche, sociali, religiose) delle scelte morali che sono sottese a leggi, vincoli, scritti e non scritti, posti via via a tutela della vita personale e associata delle persone e dei cittadini nelle diverse localizzazioni dei popoli e delle nazioni.
· L’approccio alla cultura religiosa, lontano dall’essere orientata ad una catechesi, dovrebbe dare strumenti culturali per comprendere i diversi messaggi che le diverse confessioni forniscono agli uomini, evidenziare le “contaminazioni” filosofiche sottese, l’influenza potente sulla vita civile, la necessità di un affrancamento reciproco tra lo stato laico e la organizzazione religioso-confessionale: l’obbiettivo alto dovrebbe essere quello di rafforzare le competenze analitico-critiche per rendere le scelte personali, anche in campo religioso, di ogni alunno, fondate, serie, aperte, non banali e non semplicemente coltivate per consuetudine sociale. In questo senso, l’abolizione dell’ insegnamento confessionale dovrebbe essere un traguardo di civiltà.
· Un curricolo attento alla dimensione morale deve dare strumenti per discernere tra morale corrente e morale personale: non esiste una morale corrente che possa giustificare acriticamente e in toto scelte personali. In altre parole non esiste morale corrente che non possa e non debba costantemente essere soggetta ad analisi critica, a revisione, anche in taluni casi, ad obiezione di coscienza.
· In ambito scientifico la questione di una etica della conoscenza è centrale: anche qui non si pongono omissioni, rinunce, ma tutto va conosciuto e affrontato con la massima apertura, dando strumenti perché i convincimenti personali siano fondati e formati per essere confrontati.
· La dimensione del dialogo, del confronto e della cooperazione, va proposta e ricercata come metodo costante di conoscenza e ricerca nella scuola: lo sviluppo personale non deve portare alla competizione intellettuale pura, ma a sapere fare squadra, come tutti dicono oggi (anche se spesso intendono squadre di… campioni).
· Una sana iniezione di relativismo nella conoscenza dovrebbe essere data: si conosce per superare le conoscenze date e ogni nuova conoscenza è destinata a modificarsi, anche a tramontare. L’importante è il metodo.
· La Costituzione deve permeare la proposta culturale e deve essere posta a fondamento di una morale laica. Non solo citazioni, ma conoscenza, richiami, comprensione del ruolo costante di ispirazione e controllo democratico che fin qui ha svolto e deve continuare a svolgere.

Mi fermo qui, perché il discorso è complesso: gli scenari della intercultura, del rischio della omologazione sottesa alle azioni di accoglienza dei diversi, del dove stiamo andando, se abbiamo gli strumenti per scongiurare l’imbarbarimento complessivo della specie umana stanno non tanto sullo sfondo, ma sono l’oggetto vero della crescita culturale dei nostri giovani, per aiutarli a diventare capaci di affrontare le sfide forti dell’oggi e del futuro.

In conclusione, riporto, a mo’ di confronto con quanto fin qui esposto, la sintesi del profilo dello studente alla fine del primo ciclo contenuto nelle Indicazioni della riforma Moratti.

Dopo aver frequentato la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione, grazie anche alle specifiche sollecitazioni educative recepite lungo tutto il percorso scolastico, i ragazzi sono posti nella condizione di:
§ riconoscere e gestire i diversi aspetti della propria esperienza motoria, emotiva e razionale, nella consapevolezza, proporzionata all’età, della loro interdipendenza e integrazione nell’ unità della conoscenza razionale che ne costituisce il fondamento;
§ abituarsi a riflettere con spirito critico sia sulle affermazioni in genere, sia sulle considerazioni necessarie per prendere una decisione;
§ distinguere, nell’affrontare in modo logico i vari argomenti, il diverso grado di complessità che li caratterizza, quale, ad esempio, può presentarsi nel discorrere quotidiano rispetto al trattare temi di natura letteraria, o di valenza tecnica, o di problematica religiosa, avvertendo perciò la necessità di un accostamento linguistico e di pensiero diversi, senza per altro perdere mai l’aggancio con il senso della realtà e del mondo personale, sociale e naturale circostanti;
§ concepire liberamente progetti di vario ordine – dall’esistenziale al tecnico - che li riguardino e tentare di attuarli, nei limiti del possibile, nella consapevolezza gradualmente acquisita dello scarto inevitabile tra concezione ed attuazione, tra risultati sperati ed ottenuti;
§ avere gli strumenti di giudizio proporzionalmente sufficienti per valutare se stessi, le proprie azioni, i fatti e i comportamenti individuali, umani e sociali degli altri alla luce di parametri derivati dai grandi valori spirituali che ispirano la Convivenza civile;
§ avvertire interiormente, sulla base della coscienza personale, la differenza tra il bene e il male ed essere in grado, perciò, di orientarsi nelle scelte di vita e nei comportamenti sociali e civili;
§ essere disponibili al rapporto di collaborazione con gli altri, per contribuire con il proprio apporto personale alla realizzazione di una società migliore;
§ avere consapevolezza, sia pure adeguata all’età, delle proprie inclinazioni naturali, attitudini, capacità e riuscire, sulla base di esse, a immaginare e progettare il proprio futuro, predisponendosi a gettarne le basi con appropriate assunzioni di responsabilità;
§ porsi le grandi domande sul mondo, sulle cose, su di sé e sugli altri, sul destino di ogni realtà, nel tentativo di trovare un senso che dia loro unità e giustificazione, consapevoli tuttavia dei propri limiti di fronte alla complessità dei problemi sollevati.

(testo redatto dall’Autore)

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