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LUDWIG VON MISES Italia
Lo studio dell'Azione Umana nella tradizione della Scuola Austriaca
James Mill: un’analisi libertaria della lotta di classe
Non fu Karl Marx ad introdurre la chiave interpretativa della storia politica basata sulla lotta di classe. Essa nacque, come vedremo, grazie al lavoro di due tra i più brillanti liberali francesi, seguaci di Jean-Baptiste Say, Charles Comte (genero di Say) e Charles Dunoyer, nei primi anni del XIX secolo; cioè subito dopo la restaurazione della monarchia borbonica. A differenza della successiva degenerazione marxista dell’idea di lotta di classe, la visione di Comte e Dunoyer si focalizzava sulle classi che fossero riuscite a conquistare il controllo dell’apparato statale. Ogni gruppo che sia riuscito ad impossessarsi del potere statale diventa la classe dominante: i gruppi che essa può tassare e dei quali può regolamentare gli affari diventano i comandati. L’interesse di classe, dunque, è definito come il rapporto tra un gruppo e lo Stato. È a causa dell’ordine statale, della sua tassazione, del suo esercizio del potere, della sua capacità di controllo che nascono i conflitti tra chi comanda e chi è comandato. Si tratta insomma di una teoria della lotta di classe nella quale si scontrano due gruppi, basata su un gruppo che comanda lo Stato e un altro comandato dallo Stato. D’altro canto, nel libero mercato non esiste lotta di classe, ma un’armonia di interessi tra gli individui che cooperano nella società ed intessono relazioni produttive e di scambio.
James Mill sviluppò una teoria simile
negli anni ’20 e ’30 del XIX secolo. Non sappiamo se vi sia giunto
autonomamente o tramite l’influenza dei liberali francesi; è chiaro, ad
ogni modo, che la sua è un’analisi priva del poliedrico collegamento con
la storia occidentale elaborato da Comte, Dunoyer e dal loro giovane
collega, lo storico Augustin Thierry. Mill puntualizzò che qualunque
governo è retto da una classe dirigente, dai pochi che controllano e
sfruttano i subordinati, che sono la maggioranza. Osservò che, dato che
ogni gruppo tende a ricercare gli interessi suoi propri, è assurdo
attendersi che la cricca al potere agisca altruisticamente per il “bene
di tutti”. Come qualunque altra organizzazione, essa userà le proprie
facoltà per conseguire i propri obiettivi, derubando quindi i molti
subordinati e anteponendo il proprio interesse, o quello di suoi soci, a
quello comune. Da queste considerazioni deriva l’uso costante di Mill
dell’aggettivo “losco” per indicare un interesse contrario a quello
comune. Per Mill e i radicali, beninteso, il bene comune corrispondeva
ad un governo minimo, che non interferisse nell’economia, confinato
all’assolvimento di pochi funzioni: difesa, polizia, amministrazione
della giustizia.
In linea con questo assunto, Mill,
teorico di punta dei radicali, si richiamava ai pensatori liberali del
Commonwealth del XVIII secolo nel sottolineare la costante necessità di
guardare con sospetto al governo e predisporre controlli per limitarne
l’iniziativa e il potere. Mill conveniva con Bentham, sostenendo che “se
non scoraggiata, una classe dirigente diventerebbe predatoria.” Il
conseguimento dell’interesse particolare, “losco”, conduce alla cronica
“corruzione” politica, alla sinecura, a una maggiore burocratizzazione e
al parassitismo. Mill deplorò:
Pensate al fine [del governo] per ciò che è per sua natura. Considerate dunque i servizi –giustizia, polizia, sicurezza dall’invasore straniero. E pensate infine all’oppressione che lo Stato infligge ai cittadini d’Inghilterra con il pretesto di fornire simili servizi.
La teoria libertaria della classe
dominante non è mai stata illustrata con forza e precisione pari a
quelle delle parole di Mill: ci sono due classi, scrisse l’autore, “la
prima, formata da coloro che rubano e che sono in minoranza. La seconda,
la classe di quelli che vengono derubati, che rappresentano la vasta
maggioranza. Sono i Molti, e sono sudditi.” Il professor Hamburger
riassunse così la posizione di Mill: “la politica è una lotta tra due
classi- i famelici legislatori e le loro vittime predestinate.”
Il grande dilemma riguardante il governo,
concludeva Mill, era come eliminare questo furto su vasta scala:
abbattere il potere “grazie al quale la classe che deruba prosegue nel
coltivare la propria vocazione, è il grande problema di ogni sistema
governativo.”
Mill chiamò propriamente “il popolo” “i
Molti sudditi”; probabilmente fu Mill a inaugurare l’analisi che pone
“il popolo” al rango di classe sfruttata in opposizione agli “interessi
particolari”. Com’è possibile, dunque, limitare il potere della classe
dominante? Mill pensava di aver trovato la risposta:
Il popolo deve nominare dei sorveglianti. Chi deve sorvegliare i sorveglianti? Il popolo stesso. Non c’è altro modo; senza quest’ultima ancora di salvataggio, i Pochi al comando saranno per sempre il flagello oppressore dei Molti sudditi.
Ma in che modo approntare dei
sorveglianti? Per risolvere questo annoso problema Mill propose ciò che
oggi è la soluzione standard in Occidente, ma che ancora oggi non è
pienamente soddisfacente: attraverso una votazione in cui il popolo
elegge dei rappresentanti che assumano il ruolo di sorveglianti.
Diversamente dagli analisti liberali
francesi, James Mill non era interessato alla storia e allo sviluppo del
potere dello Stato: egli voleva occuparsi solo del qui e ora. E nel qui
e ora dell’Inghilterra del suo tempo, i Pochi al potere erano gli
aristocratici, che comandavano grazie ad un suffragio molto ristretto e
al controllo dei “borghi putridi” che inviavano rappresentanti in
Parlamento. L’aristocrazia inglese era la classe dominante; il governo
inglese, rincarava Mill, era “un organigramma in mano all’aristocrazia,
gestito dagli aristocratici per il proprio interesse.” Il figlio di
Mill, a quei tempi suo ardente seguace, John Stuart, argomentò alla
maniera di famiglia nei gruppi di discussione londinesi che
l’Inghilterra non godeva di “un governo misto”, dato che la grande
maggioranza della Camera dei Lord era scelta “da 200 famiglie.” Queste
poche famiglie nobili “controllavano perciò integralmente il governo… E
se un governo controllato da 200 famiglie non è un’aristocrazia, allora
possiamo affermare che l’aristocrazia non esista nemmeno.” E dato che un
simile governo è retto e guidato da una minoranza, è perciò “condotto
per il beneficio esclusivo di questa minoranza.”
È questa analisi che porta James Mill a
collocare al centro della sua formidabile attività politica il
raggiungimento della democrazia radicale, il suffragio universale del
popolo chiamato a decidere in frequenti elezioni, il cui voto dev’essere
libero e segreto. Questo era il progetto a lungo termine di Mill,
nonostante avesse in mente di battersi temporaneamente –ricercando ciò
che i marxisti avrebbero chiamato “obiettivo transitorio”- a favore
della Riforma del 1832, che ampliò notevolmente il suffragio della
borghesia. Per Mill, l’estensione del diritto di voto era più importante
del libero mercato, poiché il processo di rovesciamento della classe
aristocratica era necessario; il libero mercato sarebbe stato una delle
felici conseguenze dell’abbattimento del potere aristocratico e della
sua sostituzione con quello del popolo. (Nel moderno contesto americano,
Mill sarebbe definito un “populista di destra”.) L’aver posto al centro
del proprio programma politico la democrazia condusse i radicali
sostenitori di Mill a perdere influenza politica negli anni ’40 del XIX
secolo; avevano peraltro rifiutato l’alleanza con la Lega anti-legge sui
cereali, nonostante concordassero con la sua posizione
liberomercatista, perché ritenevano che la lotta per il libero mercato
fosse troppo legata alla borghesia e li avrebbe alla lunga allontanati
dal loro obiettivo principale, e cioè la riforma democratica.
Dato per assodato che il popolo avrebbe
detronizzato l’aristocrazia, c’erano ragioni per ipotizzare che esso
avrebbe esercitato la sua volontà in direzione del libero mercato?
Secondo Mill sì, e su questo punto il suo era un ragionamento acuto.
Mentre l’intera classe dirigente poteva godere in comune dei frutti
della sua politica di esproprio, questo non valeva per il popolo, il cui
unico interesse comune era quello di sbarazzarsi del regime di
privilegio. A parte questo, il popolo non aveva comuni interessi di
classe tali da dover essere raggiunti grazie al potere dello Stato.
Inoltre, l’eliminazione del privilegio è interesse di tutti, e da qui
discende l’idea di “interesse pubblico” in opposizione agli interessi
particolari, “loschi” dei pochi. L’interesse del popolo coincideva con
quello universale, con il libero mercato e la libertà di tutti.
Ma dunque come spiegare il fatto che
nessuno può sostenere che le masse abbiano sempre sostenuto il libero
mercato, e che esse abbiano anzi fin troppo spesso sostenuto le
politiche espropriatrici dei pochi? Semplice: perché il popolo, nel
campo complesso della linea politica che un governo dovrebbe seguire, è
vittima di ciò che i marxisti avrebbero definito “una falsa coscienza”,
un’ignoranza delle basi su cui poggiano i suoi veri interessi. In questo
contesto era missione dell’avanguardia intellettuale, dei radicali e di
Mill, educare e organizzare le masse in modo tale da raddrizzare la
loro consapevolezza e spingerle ad avvalersi della propria irresistibile
forza per far trionfare la legge democratica ed instaurare il libero
mercato. Benché possiamo accogliere quest’idea in linea di principio, i
sostenitori di Mill si dimostrarono fin troppo ottimisti riguardo al
tempo necessario perché sorgesse una simile consapevolezza; le disfatte
politiche dei primi anni ’40 mortificarono le loro illusioni, spegnendo
in loro la fiducia nella strategia radicale e portando al dissolvimento
rapido del movimento. Piuttosto curiosamente i suoi capi, come John
Stuart Mill e George e Harriet Grote, nonostante proclamassero il loro
stanco allontanamento dalla vita politica o dal fervore ideale, in
realtà gravitavano con sorprendente foga attorno all’accogliente centro
conservatore che avevano un tempo criticato. La loro sbandierata perdita
d’interesse politico mascherava piuttosto la perdita d’interesse per la
strategia politica radicale.
di Murray N. Rothbard su Mises.org
Traduzione di Paolo Amighetti
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