venerdì, settembre 05, 2008

Un’Italia ariana e antisemita...

L’obiettivo della persecuzione antiebraica fascista fu quello di passare dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite; riflessi di attualità

Michele Sarfatti*

Settanta anni or sono, il 1° e il 2 settembre 1938, il Consiglio dei ministri del Regno d’Italia si riunì per approvare le prime leggi antisemite della storia dell’Italia unita. La legislazione antiebraica varata in quei mesi dal regime fascista coinvolse il Paese nel suo insieme, non la sua sola vita politica, o sociale, o economica, o culturale. Dal punto di vista della dittatura, essa introdusse una riforma di ambito generale e di durata permanente. Benito Mussolini decise che il fascismo e l’Italia intera dovevano essere ariani e antisemiti. E l’uno e l’altra lo divennero o iniziarono a divenirlo. Si trattò ovviamente di una trasformazione processuale, progressiva ma non lineare. In alcuni ambiti, non era ancora conclusa alla fine della guerra; in altri, avanzò molto velocemente.

Pur essendo similare alla svolta razzistica intrapresa nel 1936-1937 contro i sudditi delle colonie africane, e in particolare contro le popolazioni di Etiopia, Eritrea e Somalia, la persecuzione antiebraica varata nel 1938 se ne differenziò perché ebbe per oggetto delle persone che erano cittadini dello Stato. Essa quindi costituì una rottura del patto di eguale cittadinanza stretto nel corso del Risorgimento. Inoltre, come le altre legislazioni antiebraiche europee, costituì un rovesciamento epocale dei principi della Rivoluzione francese e del liberalismo dell’Ottocento.

Occorre ricordare che l’Italia fascista non emanò una legge di revoca della cittadinanza italiana agli ebrei italiani. Tuttavia li escluse, in modo generalizzato e definitivo, dalle Forze armate, dal Partito nazionale fascista e da tutta la vita della nazione. Insomma, nel 1938 ebbe termine la vicenda storico-nazionale avviatasi con il Risorgimento. Un perseguitato, professore di Storia dell’arte, scrisse in quei giorni: «A me è stata improvvisamente troncata ogni attività di cittadino e di studioso: espulso dall’esercito, dalla cattedra, attraverso i miei libri dalla scuola, assisto alla distruzione di quanto formava la ragione stessa della mia vita».

La legislazione antiebraica italiana non era diretta solo contro gli ebrei antifascisti e non-fascisti, o solo contro le persone iscritte a una Comunità ebraica, bensì contro tutte le persone classificate di «razza ebraica». Ed essa stessa classificava di «razza ebraica» ogni persona nata da due genitori di «razza ebraica», anche quando era di religione cristiana. Insomma, qualsiasi scelta religiosa o culturale avesse compiuto, una persona non poteva cambiare ciò che gli era stato trasmesso automaticamente dai genitori. Questo criterio classificatorio è indubitabilmente «razzistico biologico». Esso fu applicato anche alle persone di religione ebraica nate da due genitori di «razza ariana», le quali furono sempre classificate di «razza ariana». Il documento teorico ufficiale Il fascismo e i problemi della razza (noto anche con il titolo fuorviante Manifesto degli scienziati razzisti), pubblicato il 14 luglio 1938, aveva affermato con estrema chiarezza che «il concetto di razza è concetto puramente biologico». La «razza» dei genitori veniva stabilita sulla base della «razza» dei loro genitori, e così via a ritroso nel tempo, fino a quando, venendo a mancare i registri anagrafici, si considerava che una persona di religione ebraica fosse automaticamente di «razza ebraica». Nel caso di matrimoni definiti «razzialmente misti», la «razza» dei figli veniva determinata sulla base dei loro comportamenti.

Volendo sintetizzare l’obiettivo della persecuzione antiebraica fascista, possiamo dire che nel 1938-1943 il fascismo intendeva eliminare tutti gli ebrei, italiani e stranieri, dal territorio italiano e dalla società italiana. Relativamente a quelli stranieri, nel settembre-novembre 1938 il governo vietò nuovi ingressi aventi scopo di «residenza» e ordinò l’allontanamento entro pochi mesi di coloro la cui residenza in Italia era iniziata dopo il 1918. Inoltre nell’agosto 1939 vietò agli ebrei dell’Europa centrale gli ingressi aventi scopo di «soggiorno», e nel maggio 1940 quelli aventi scopo di «transito». Quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale (10 giugno 1940), fu stabilito che gli ebrei stranieri ancora presenti nella penisola venissero internati in piccoli comuni o in campi di internamento, in attesa di essere espulsi alla fine del conflitto. L’internamento fu un provvedimento antisemita, ma in questi campi italiani del 1940-1943 non vi furono violenze antisemite.

Riguardo agli ebrei italiani, inizialmente la dittatura operò per favorirne l’emigrazione spontanea. Successivamente avviò l’elaborazione di una legge per la loro espulsione generalizzata e definitiva; il progetto venne però presto accantonato, senza dubbio perché l’estensione geografica della guerra aveva ridotto ai minimi termini la possibilità di emigrazione. Anche per gli ebrei italiani nel 1940-1943 furono decisi provvedimenti di internamento e di lavoro obbligato, che con il trascorrere degli anni e l’aumento delle sconfitte belliche divennero sempre più generalizzati e sempre più persecutori: nel maggio-giugno 1940 fu disposto l’internamento di quelli giudicati maggiormente «pericolosi»; nel maggio 1942 l’istituzione del «lavoro obbligatorio» , noto anche come «precettazione» ; nel giugno 1943 l’istituzione di quattro «campi di internamento e lavoro obbligatorio» per ebrei abili (questa decisione non fu però attuata a causa della crisi del 25 luglio).

A partire dal settembre 1938 gli ebrei furono colpiti da una serie incessante di divieti, aventi per oggetto pressoché tutti i comparti della vita; essi furono così espulsi dalla scuola pubblica, dal comparto dello spettacolo (teatro, musica, film, ecc.), dalle associazioni culturali e sportive, dall’editoria, dalle cooperative, dagli impieghi pubblici, in misura progressiva da quelli privati, ecc. Questi provvedimenti da un lato attuavano la loro persecuzione e dall’altro realizzavano la loro separazione dai non ebrei. Entrambe erano politiche essenziali per il successo dell’azione di allontanamento/ espulsione. Ma gli ebrei di cittadinanza italiana che emigrarono tra il 1938 e l’autunno 1940 furono solo l’8%.

Come già detto, il fascismo italiano aveva anche l’obiettivo di «arianizzare» la società italiana. Così, le politiche di espulsione degli ebrei dai singoli ambiti della vita lavorativa, educativa e sociale e di separazione erano funzionali anche alla disebreizzazione e alla antisemitizzazione del Paese, sempre più caratterizzato come Stato «ariano» e «razziale». Parallelamente, gli ebrei divenivano sempre più soli e impoveriti. E queste due trasformazioni si rivelarono fatali – assieme alla poderosa opera di schedatura effettuata dalla burocrazia – quando, con l’8 settembre 1943, si passò dalla fase della «persecuzione dei diritti» a quella della «persecuzione delle vite».

* direttore Fondazione Centro di documentazione ebraica – Milano

(Riforma)

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