mercoledì, ottobre 26, 2016

...fino all'ultima spiaggia di Ventotene.



Il burkini e la sharia in Occidente
 di Maria Mantello

Il burkini non è un progresso verso la libertà delle donne islamiche di abbigliarsi come meglio credono, come qualcuno va ripetendo.

Quel chador da mare, che nel nome evoca il burka e nella studiata assonanza si contrappone al bikini, è il segno della penetrazione della sharia in Occidente.

L’appartenenza islamica si palesa inequivocabilmente nel velo indossato dalle donne, e non si può ignorare l’uso di manifesto pubblico che assume: bandiera del programma islamista per bloccare ogni integrazione possibile nelle democrazie occidentali.

Con quel velo, in tutte le sue versioni – acquatiche comprese – si esibisce e cerca di imporre la non negoziabilità della legge musulmana. La sharia diventa così un parallelo binario legislativo. Uno stato nello stato.

La copertura della donna (Al-hijab) è un precetto. E a questo da secoli vengono educate le donne islamiche fin dall’infanzia, in modo che alla fine il controllo patriarcale sia talmente ben riuscito da far dire loro: “il velo lo voglio portare”. Altro che libertà! È schiavitù consenziente!
Ma un obbligo religioso non può essere legge in uno stato democratico. E quando questo accade si intacca il supremo valore laico del diritto di ciascun individuo di emanciparsi dalla pretesa di chi vuole far coincidere l’umanità con l’identità religiosa.

Se quelle donne gettassero alle ortiche il chador, se volessero indossare il bikini in spiaggia o in piscina sarebbe loro consentito dal clan familiare? O dovrebbero subirne ritorsioni d’ogni sorta?

Violenze che si consumano nel silenzio delle mura domestiche... fino anche all’omicidio rituale.

Come nel caso di Hina Salem, 21 anni, sgozzata in provincia di Brescia dal padre, proprio come fanno i macellai dell’Isis, perché la ragazza voleva vivere “all’Occidentale”. Rifiutava il matrimonio combinato, portava la minigonna, voleva sentire il vento della libertà sui suoi capelli....

Accadeva dieci anni fa, l’11 agosto del 2006. E grande fu l’indignazione che ci costrinse ad aprire gli occhi.

Poi, in nome del grande equivoco multiculturale, è sceso nuovamente su tante coscienze il velo buonista della pariteticità di usi e costumi; mentre si incensavano sedicenti rappresentanti dei “diritti” dei musulmani, ignorando il loro stretto legame finanziario e ideologico con i gruppi più integralisti dei paesi islamici (Cfr: Necla Kelek, “Il rischio shari'a nel cuore dell’Europa”, in MicroMega, 2/2016).

Compito degli stati democratici è favorire e promuovere l’autodeterminazione di ogni individuo, che non può neppure iniziare, se in nome del multiculturalismo lo si abbandona al circolo concluso dell’omologazione ad un gruppo, che lo sovrasta e schiaccia nel sigillo di un dio assoluto.

Se viene infatti prima l’appartenenza al gruppo religioso e ai suoi precetti, ognuno prima di poter essere individuo – specialmente se donna – si deve adeguare ai precetti del gruppo che, di fronte ad una democrazia debole, riesce a conquistare spazi anche per usi e costumi incompatibili con la democrazia.

Allora, il baluardo laico della separazione tra religione e stato, va preteso. E mentre ancora lottiamo contro ingerenze e privilegi clericali di casa nostra, non possiamo consentire zone franche a chi identifica la moschea con lo stato.

Maria Mantello

22 agosto 2016

Nessun commento:

rdo Sciascia su Pasolini