venerdì, novembre 23, 2012

Suicidi in carcere. L’indifferenza di chi deve, può e non vuole. Addio a Bori, il professore dei diritti umani. (10) Gandhi e Tolstoi. Un carteggio e dintorni”

Da Notizie Radicali  - Valter Vecellio
10)

08-11-2012

Aveva 31 anni. Era originario della Repubblica Dominicana. Detenuto nel carcere bolognese della Dozza dal dicembre del 2011, doveva scontare una pena di cinque anni per traffico illecito di sostanze stupefacenti. Quanto mancava, prima di uscire? Poco, tutto sommato. Un "poco" che però è dovuto sembrare troppo, un tempo intollerabile; e così, fabbricata una specie di corda con dei lacci per calzatura, si è impiccato alla finestra della sua cella. In qualche registro del ministero della Giustizia o del DAP risulterà come un numero: il 37 dal 1 gennaio, come ricorda Domenico Maldarizzi, coordinatore provinciale della UIL-penitenziari.

Amata morte
Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Padova, scrive una nota, "Amata morte", ospitata da "Ristretti Orizzonti". Musumeci si riferisce a un altro detenuto morto, a Padova, storie simili, che si susseguono e ripetono. Una strage, che si consuma tra il colpevole silenzio e la feroce indifferenza di chi deve, può; e non vuole.

"Quando hanno aperto la cella
era già tardi perché
con una corda sul collo
freddo pendeva Miché"
(Fabrizio De Andrè).

Sul giornale di oggi leggo: "Detenuto morto con il gas. È un tunisino: suicidio o tentativo di sballo finito male?". Un altro morto in carcere: e non fa però più notizia. Ormai i morti sono troppi. E là fuori dal muro di cinta si sono abituati, ma io non ci riesco perché il prossimo morto potrei essere io o il mio compagno della cella di fronte a me. Molti pensano che il detenuto, se si uccide, non sia normale e che sia malato di mente, oppure che sia un ribelle. Nessuno invece pensa che chi si toglie la vita spesso lo fa perché l'ama troppo per vederla appassire senza fare nulla. O per protesta contro l'ingiustizia, perché non ha altra possibilità per attirare l'attenzione, per farsi ascoltare, oppure per "vendicarsi" contro le prepotenze del carcere o della giustizia degli uomini. Molti non sanno che a volte sono proprio i detenuti più "forti" che si tolgono la vita, perché quelli "deboli" accettano più facilmente di vegetare perché non amano abbastanza la vita. Piuttosto bisognerebbe domandarsi chi sono quelli che si tolgono la vita o chi sono quelli che accettano di vivere una non-vita? Per questo penso che siano i detenuti più buoni quelli che si tolgono la vita.

Che la terra ti sia lieve professor Bori

Ieri a Bologna ultimo, commosso e silenzioso saluto al Pier Cesare Bori, il "professore dei diritti umani", cui molti devono molto. Bori, docente all'università di Bologna, è ci ha lasciato un paio di giorni fa, sconfitto da un mesotelioma. Sul necrologio, la famiglia ha scritto: "Ucciso dall'amianto". Già, perché Bori era nato e cresciuto a Casale Monferrato.

Di recente era stato nominato titolare della cattedra Unisco per il pluralismo religioso e la pace; molto del suo tempo era dedicato all'insegnamento tra i detenuti, in particolare i magrebini. Un'esperienza poi raccolta nel volume "Lampada a se stessi. Letture tra università e carcere", pubblicato da Marietti nel 2008. Studioso di giurisprudenza, teologia e scienze bibliche, si era occupato di etica interculturale. Molti i suoi libri, il più caro, a noi, quello pubblicato con Gianni Sofri per le edizioni del Mulino: "Gandhi e Tolstoi. Un carteggio e dintorni"

Da quell'importante libro, pubblichiamo una pagina:

Lo scambio di lettere tra Gandhi e Tolstoj si svolge negli ultimissimi anni della lunga vita di questi (1828-1910) e alla fine del primo decennio del secolo in Russia, un decennio carico di importanti mutamenti e di avvenimenti gravi che preludono a ancor più profondi rivolgimenti: la guerra russo-giapponese e la sconfitta russa, la prima rivoluzione, il terrorismo e la sua dura repressione in un quadro economico-sociale che va rapidamente mutando a causa della rapida industrializzazione del paese, mentre, con le prime concessioni costituzionali, si affacciano le più diverse e contrastanti propose politiche.
Si consumano in questi anni le rotture di cui Lev Nikolaevic Tolstoj aveva posto le premesse almeno da trent'anni, dandovi poi la spinta decisiva con "Resurrezione" (1898). V'è nel 1901, il suo abbandono definitivo della chiesa ortodossa. Alla condanna ecclesiastica aveva risposto:

"Che io abbia rinunciato alla chiesa che si pretende ortodossa questo è perfettamente esatto. Ma vi ho rinunciato non perché mi sia ribellato al Signore, ma al contrario, solo perché con tutte le forze dell'anima volevo servirlo. Prima di rinunziare alla chiesa e alla comunione con il popolo, che mi era inesprimibilmente preziosa, io dubitando da taluni indizi che quella chiesa non fosse la vera chiesa, consacrai alcuni anni a studiarne teoricamente e praticamente la dottrina. Teoricamente: ho letto tutto quello che potevo sull'insegnamento della chiesa, ho studiato e esaminato criticamente la teologia dogmatica. Praticamente poi ho seguito, nel corso di parecchi anni, con molto rigore, le prescrizioni della chiesa, osservando tutti i digiuni e prendendo parte a tutti i servizi liturgici. E mi convinsi che l'insegnamento della chiesa è, dal punto di vista pratico un complesso delle più grossolane superstizioni e manifestazioni magiche, che nascondono completamente tutto il senso dell'insegnamento cristiano"(1)

E' di questi anni il suo rigetto di ogni solidarietà patriottica al momento della guerra tra il suo paese e il Giappone ("Non sono né per la Russia né per il Giappone, ma per il popolo lavoratore di entrambi, ingannato dai governi e obbligato a combattere contro il proprio benessere, la propria coscienza e la propria religione")(2). Ma c'è al tempo stesso il suo rifiuto di ogni solidarietà con il movimento rivoluzionario del 1905 ("Sono contento della rivoluzione, ma me la prendo con coloro che credendo di farla la rovinano. Distruggere le violenze dell'antico regime si può solo non prendendo parte alle violenze, e non commettendo, come si fa oggi, nuove e sconclusionate violenze") (3).Non v'è solo il distacco dalla cultura europea (4), v'è un moto di abbandono del suo passato, delle opere che egli ormai considera "sciocchezze": "Gli uomini che mi odiano per le loro opinioni quasi-religiose che io ho distrutto, mi amano per quelle sciocchezze ("Guerra e pace" e simili) che sembrano loro molto importanti". (5).Estraniazione, distacco, solitudine (e si pensi anche alle vicende familiari). Isolamento estremo della posizione tolstojana, duramente attaccata dalle più diverse direzioni, da V.Solov'ev ("La leggenda dell'anticristo": e l'anticristo è proprio lui, Lev Nikolaevic), da D.Merezkovskij ("Tolstoi e Dostoevskij"), dal S.Sinodo nel 1901. Lenin nel 1908 parlerà del peccato storico della Russia, il tolstoismo (6).Ma anche nuovi rapporti, incontri imprevisti con interlocutori straordinari, spazi enormi di nuova comunicazione che si aprono ciò che appare appunto da questo scambio epistolare con Gandhi (7), che si svolge tra Johannesburg, Londra, Jasnaja Poljana, e risulta anche da altri scambi in varia forma con interlocutori di tutto il mondo, in particolare orientali (8).
Ciò avviene come necessario riflesso esterno di un processo, iniziato alcuni decenni prima di concentrazione, di liberazione e di apertura cultural, attraverso la riduzione del cristianesimo a un nucleo essenziale e l'appropriazione critica di altre esperienze religiose, anch'esse colte in nucleo. Questo processo e questo nucleo vanno richiamati, per poi venire all'esame diretto di alcuni aspetti della corrispondenza tra Tolstoj e l'India, Gandhi in particolare.

Note
1) Otvet na opredelenie Sinoda (Risposta alla decisione del Sinodo) (Polnoe sobranie socineij, Moskva, 1929-1958, abbr. PPSS, XXXIV, p.245) trad. It. In P.C.Bori-P.Bettiolo, Movimenti religiosi in Russia prima della rivoluzione 1900-1917, Brescia 1978, p.108).
2) Telegramma in inglese del 9/22 febbraio 1904 a "The North American" (PPSS, LXXV, p.37). La prima delle date indicate si riferisce al vecchio calendario. Qualora si indichi una sola data, questa è del vecchio calendario.
3) Lettera del 20 settembre 1906 a V.V.Stasov (PPSS, LXXV, pp.193s.). Posizione compiutamente espressa in quegli stessi anni nell'Obascenie k russkim ljudjam, k pravitelstvu, revoljucioneram i narodu (Messaggio alla gente russa al governo, ai rivoluzionari e al popolo) (PPSS, XXXVI, p.304-314) e in O znacenii russkoj revoljucii (Sul significato della rivoluzione russa) (PPSS, XXXVI, pp.315-362).
4) Diari 27 agosto 1905 (PPSS, LV. Pp.157s): "Come si è ora chiarita la storia dei miei rapporti con l'Europa: 1) gioia di esser conosciuto, io meschino, da tanti grandi uomini; 2) gioia che mi apprezzassero alla pari con i loro; 3) che mi apprezzassero al di sopra dei loro; 4) cominci a comprendere che sono quelli che ti apprezzano; 5) nasce il dubbio che ti capiscano; 6) la certezza che non ti capiscano; 7) che non capiscono niente: che quelli i cui apprezzamenti avevo così cari sono stupidi e selvaggi". Ho avuto presente per i diari la trad.it. (parziale) di S.Bernardini, I diari di L.N.Tolstoj (1847-1910), Longanesi, Milano 1980.
5) Diari, 6 dicembre 1908 (PPSS, LVI, pp.162s).
6) Lev Tolstoj come specchio della rivoluzione russa, in "Proletari", n.35, 11/24 settembre 1908, trad. it. in Lenin, Opere Complete, XV, Roma, 1967, p.203.
7) La parte tolstojana fu pubblicata prima in "Literaturnoe nasledstvo" 37-38 (1939), pp.339-352, a cura di A.Sergeenko, poi in PPSS, LXXX e LXXXII rispettivamente nel 1905 e 1956, a cura di N.S.Radionov.
8) Ampia informazione in P.Birukoff (Birjukov), Tolstoj und der Orient. Briefe und sonstige Zeugnisse uber Tolstois Beziehungen zu den Vertreten orientalischer Religionen, Zurich und Leipzig, 1925. P.Birjukov dedicò il libro a Gandhi. A.I. Pjatigorskij (L'interpretazione tolstojana del buddismo), N.Fedorenko (Tolstoj e la Cina) G.Pomeranc (Tolstoj e l'Oriente), in Tolstoj oggi, Firenze 1980, pp.237-264.

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